Il 17 ottobre di trentacinque autunni fa, Beppe Viola decise di varcare i cieli – o qualsiasi altra dimensione – per narrarne l’affusolato immenso.
Fuoriclasse dell’inchiostro, ascoltatore dalle pirandelliane freddure. Segugio di palpitazioni, pittore guttusiano dei green carpet. Annusatore eccitato sui marciapiedi ambrogini, cultore di sentimento tra migliaia di starnazzi nebulosi.
Insieme a Giabagianna Brera è inequivocabilmente il romanziere sportivo più grande d’Italia. E chi crede di fare questo mestiere senza leggerlo o ascoltarlo, forse è meglio che si dia al giardinaggio. Egli è il parametro di giudizio assoluto della Milano pre e post sessantottina, dove era più saggio interpretare semioticamente le smorfie su un tram o l’euforia dentro un bar, che le stonature dei tromboni in “doppio cachemire” verso via Monte Napoleone.
A raccontarci tangibilmente – ed emozionalmente – Quello che… rivoluzionò il giornalismo italiano con disarmante semplicità è il suo più lucido figlio intellettuale: Giorgio Terruzzi.
Caro Giorgio, Beppe Viola racconta un’epoca intera con un’intervista sul tram. Scrive la sceneggiatura di Romanzo Popolare di Monicelli. Costruisce assieme a Jannacci frammenti di cantautorato. Traccia al Bar Gatullo i suoi “affreschi sociologici”. Qual è l’eccitante segreto di questa iper-narratività?
«Il segreto è uno solo. Un talento abbinato a una visione del mondo molto ironica e autoironica, inserita dentro Milano. Quello che sfugge un po’ è che parliamo di un lavoratore indefesso, dalla fortissima etica professionale. Il suo modo moderno di scrivere veniva da una certa letteratura americana di quegli anni: Truman Capote, Hemingway e tanti altri. Il suo uso innovativo della punteggiatura passa da qui. In aggiunta aveva una vera umiltà, che manca a molte persone che fanno questo lavoro. Lui aveva un occhio molto attento al marciapiede, raccontava il mondo degli ultimi».
Sei stato come un figlio per lui, e hai colto le singole venature del padre. Come veniva concepito, come nasceva e poi vagiva un pezzo capolavoro di Viola?
«Scriveva continuamente con la sua Olivetti, con la carta carbone, ed era anche molto veloce nello scrivere. Una cosa che non mi dimentico è che lui ha sempre detto che di un pezzo contano molto le prime tre righe e le ultime tre. Bisogna fare in modo di attirare subito l’attenzione quando uno ti legge, per farlo continuare, e poi di chiudere con un gran finale per dare un vero segno riflessivo, un bilancio di qualità».
Nell’era del giornalismo Web, la velocità cronachistica soppianta la narrazione. Questo rende i molti più rincoglioniti di prima. Come si sarebbe posto Viola nei confronti dei new media?
«Secondo me si sarebbe adattato, mantenendo una qualità alta sulla velocità. Una caratteristica dei suoi tempi era andare “a braccio”, con una rapidità nel fare molto marcata. Lui era uno molto attento, in cuor suo rivoluzionario. E poi quelli che dicono “ai miei tempi era meglio” e si ferman lì, è un po’ morire dentro. C’è sempre qualcosa d’interessante che ti può insegnare una lezione nuova. E questo è un atteggiamento che aveva Beppe».
Giorgio, sei l’anello di congiunzione tra il giornalismo di Quelli che… e il giornalismo 2.0. Che consigli ti senti di dare a quei giovani che accarezzano il mestiere – spesso scadendo nel banale – e si ritrovano a non raccontare un cazzo?
«La cosa fondamentale è una: bisogna studiare. Non arriva niente gratis. Bisogna leggere, informarsi, guardare cose che non si appartengono ancora. Avere il coraggio di mettersi in discussione. Scrivere un pezzettino o comparire in televisione ogni tanto per fare il figo non porta a niente. Saper parlare o saper scrivere non basta. Come tutti i lavori, solo la fatica restituisce. Studio, lettura e attenzione, ma anche una severità nei propri confronti. Uno può imparare e migliorare anche a novanta anni».
Giorgio, Qual è l’aneddoto di Beppe Viola che custodisci dentro di te?
«Io ho fatto questo mestiere litigando con mio padre, che aveva altri progetti per me. Quando mio papà conobbe Beppe Viola, tutto si appianò. Accettò il fatto che io avessi visto in lui una sorta di guida, con il quale manifestavo una passione, una dedizione, un’allegria di poter fare il mestiere che sognavo. Ho un sentimento di profonda gratitudine nei confronti di Beppe, ho avuto tanta fortuna ad incontrarlo. Per me è stata una persona cara, una persona buona, che in aggiunta aveva delle valenze professionali molto preziose».
Come amava sostenere con un filino di drammaturgia l’ottimo Truman Capote, “è facile ignorare la pioggia se si possiede un impermeabile”. Di solito, chi lo fa con vetusta nonchalance, secondo Beppe Viola sono “quelli che si guardano allo specchio e non gli sembra vero”.
Onesto lettore, – ti do del tu anche se non ci conosciamo da tanto – ecco lo zampillante omaggio che puoi riservare alle sfumature di nero del Beppe Nazionale: inzupparti sotto la pioggia, guardare al tuo specchio una persona, vera.
Annibale Gagliani
This post was last modified on 24 Ottobre 2017
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