Il capitano, Cicerone dalle ambiziose responsabilità, locomotiva di un’equipe professionale.
Nel calcio poi, che è materia bruta da manipolare in mezzo a un’angusta incertezza, colui che porta la fascia sul braccio ruggire alla Berry White e pedalare come un porteur qualunque.
Chi è il più grande capofila della shakespeariana histoire del calcio italiano?
Leggendo tra le righe del romanzo granata, ritroviamo lettere compatte e fulminanti: Valentino Mazzola.
Emblema sportivo del Dopoguerra, figlio di una miseria sociale tramutata in eroismo con le sue stoccate da pregevole ambidestro.
L’Italia scavava nei cumuli assordanti di macerie familiari per cercare piccoli sogni da innaffiare nel quotidiano. Dopo la liberazione alleata del 25 aprile 1945 era possibile imbastire un sorriso privo di lacrime vermiglie. Ciò comportava il sacrifico totale di tutta la Penisola.
Nel blu dipinto di blu del Modugno e la rosselliniana Roma città aperta ne rappresenteranno il sottofondo.
Quando il Grande Torino attraversava momenti di balenante difficoltà nel pieno degli agguerriti tornei nazionali, il capitano si alzava le maniche per indicare la via maestra alla poderosa carovana piemontese.
Lampo di sconvolgente determinazione posato sul Filadelfia e nei restanti stadi di prima divisione. I gendarmi più anziani della squadra riconoscevano a Valentino il trono di leader assoluto, Mole Antonelliana del reparto offensivo di Erbstein e Lievesley.
Mazzola, occhi sicuri, spalle coriacee – che han conosciuto giornate di lavoro tremende – vita privata senza sbavature. Nasce a Cassano d’Adda il 26 gennaio 1919 da una famiglia modestissima che gli insegnò a guadagnarsi il pane fin da piccolino.
I vicini di casa lo soprannominavano “tulen” perché gli piaceva calciare le lattine che trovava per strada.
Aveva un tiro pauroso già allora. Leggende popolari narrano che in una partitella all’oratorio il giovincello Valentino era sul dischetto per calciare un rigore decisivo.
Il portiere difendente cercava di intimidirlo con la speranza di fargli perdere la concentrazione, ma il giovane asso gli intimo di farsi da parte per evitare guai.
“Il tulen” partì e sferrò un destro centrale di rara potenza, capace di far entrare in rete sfera di cuoio e numero uno avverso. Consuetudine riprodotta per tutta la sua inestimabile carriera.
Mentre ardeva la soffocante estate del 1942, quella in cui Stalingrado diventava epicentro del disastro mondiale, arrivava il treno più importante per la sua realizzazione professionale: il Torino di Ferruccio Novo lo soffia furbescamente alla Juve e lo paga 1.250.000 lire.
20 settembre dello stesso anno, pomeriggio che conclude la bella stagione, attesa trepidante, il dieci esordisce in Coppa Italia con una doppietta da bomber navigato nonostante la tenera età.
Dopo la guerra Mazzola sale in cattedra prendendo per mano il suo club e portandolo a realizzare tutti i sogni calcistici possibili secondo le ambizioni degli anni Quaranta.
Scudetti, coppe Italia e un intero gruppo trapiantato in azzurro. Arma letale con brillantina e divisa sempre ordinata, abitava in un appartamentino di via Torricelli nella capitale dell’ex Regno sabaudo.
Il capitano aprì un negozio di articoli sportivi, cucendo i palloni con le sue vigorose mani. Per un po’ di tempo ha lavorato anche al Lingotto, una delle fabbriche piemontesi di maggior successo. Il suo scatto era riconducibile a quello del figlio del vento Jesse Owens e la sua resistenza fisica era tipica di un fondista etiope del Duemila.
Bisogna dire che un altro gentiluomo del panorama sportivo italiano, ha lucidato i gradi di Capitano dei cieli: Gaetano Scirea.
Numero sei serafico e mordace, nato nel nebbiolo della Val Padana e cresciuto a pane e rispetto da una famiglia di origini sicule.
Instaura un legame indissolubile col pallone frequentando il gruppo sportivo “Serenissima” di Cinisello Balsamo. Indossa la maglia di stoffe cortesi dei locali, intraprendendo diligentemente il ruolo di centrattacco.
Il dirigente della Serenissima San Pio X gli spalancò le porte delle giovanili atalantine durante la primavera del 1967: gli orobici Scirea impara a fare l’ala destra, sviluppando un nobile tocco di palla.
Al tramonto della sua adolescenza alternava allenamenti con la Primavera della dea a mattinate di lavoro come tornitore nell’officina dello zio a Cernusco.
Questa occupazione all’insegna dell’olio di motore lo accompagnò anche dopo l’esordio in Serie A. Il tecnico dei bergamaschi Castagner lo teneva d’occhio. Da buon intenditore di leve promettenti svezzò il verde Gaetano schierandolo come libero alle spalle dello stopper Percassi, futuro presidente dell’Atalanta.
Scirea afferrò al volo i compiti impartitigli dal mister, interpretando il nuovo ruolo con approccio illuminista. Non si limitava a difendere la propria porta, ma organizzava il gioco della squadra, concedendosi inserimenti improvvisi che puntavano fino all’area avversaria.
Parliamo del Beckenbauer italiano. Parliamo dell’unico Gandhi apparso nei meandri degli algidi musei calcistici. Era modernità da Belle epoque impressa in un fisico altamente performante.
Senso tattico superiore alla media, correttezza da record con la bellezza di zero espulsioni in carriera, qualcosa di formidabile pensando al ruolo che ricopriva.
Campione del mondo favoloso tra le corride da tremore alle ginocchia di Spagna ’82. Campione di tutto e recordman di presenze da capitano generoso con la Juventus Trapattoniana.
Si dice che la classe operaia alla fine dei suoi giorni vada in paradiso.
Valentino e Gaetano, oltre a conquistare l’immensità misteriosa dell’epica umana, hanno lucidato la corona del contesa leale, firmandosi negli annali del football come Capitano dei cieli.
Padri indiscussi dello sport più bello di sempre. Quello che edificava le persone. Comune denominatore che ardeva l’anima, riempiendo di romanticismo le vene del volgo.
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