Poniamo alla nostra attenzione un caso apparentemente anomalo. Supponiamo che un cinese ed un americano di razza e cultura totalmente agli antipodi si incontrino e, parlando soltanto la proprio lingua, cerchino di comunicare: ne verrebbe fuori una vera e proprio frittata senza possibilità di dialogo e comprensione. Dall’altra parte della medaglia però, la loro dialettica completamente discordante finirebbe per prendere il sopravvento, mostrando la bellezza variegata di popoli e linguaggi completamente contrapposti. Immaginiamo adesso che i due, vedendo su un maxi-schermo le giocate di Riccardo Kakà, si sentano smaterializzarsi dal mondo, come se per un momento Occidente ed Oriente fossero esclusi dalla realtà e un senso di straniamento li avvolgesse. Ci sarebbe da stupirsi? Probabilmente no: un sangue chiamato “normalità” non è mai scorso nelle vene dei calciatori brasiliani.
In loro c’è sempre stato qualcosa di diverso e fuori dalla norma, qualcosa che sfugge al controllo e alla mente degli esseri umani che si sentono quasi fuori globo nell’ammirare le loro giocate. “Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza campo da calcio”, cosi diceva Edoardo Galeano per spiegare al mondo cosa fosse questo gioco per i brasiliani, popolo nato con la palla tra i piedi. Pelè, Zico, Socrates, sino ad arrivare ai Ronaldo, Ronaldinho, Kakà, sono soltanto alcuni dei giocatori che rientrano nella cerchia dei “non umani”: guardare le loro prodezze sul rettangolo verde o assistere ad uno spettacolo pirotecnico potrebbe essere la stessa cosa.
Ricardo Izecson Dos Santos Leite, in arte Kakà, non è soltanto un semplice brasiliano: è una delle più belle e genuine rappresentazioni della “purezza” del calcio, nonostante il suo soprannome provi a dire il contrario. Si perché molti dei suoi compaesani, nonostante il talento straordinario, si sono lasciati prendere da tutto il contorno di brio e divertimento che gravita attorno alla figura del calciatore, mentre Riccardo è rimasto sempre con i piedi sul campo e lo sguardo già proiettato al prossimo traguardo. “Con Poulsen giocavo da cattivo, è vero. Ma credetemi, litigare e maltrattare un ragazzo come Kakà, che non faceva male nemmeno ad una mosca, mi faceva innervosire. Non gli ho mai perdonato questo”, con questo aneddoto Rino Gattuso, suo compagno di reparto negli anni in rossonero, ha definito l’umanità del brasiliano.
Eppure il suo approdo al Milan era stato accolto con scetticismo visto anche il costo dell’operazione – 8,5 milioni – per un calciatore che si era segnalato in patria tra le file del San Paolo, ma che era sconosciuto dall’intero panorama calcistico. Neanche il tempo di sollevare un minimo dubbio e prender confidenza con il suo volto “pulito” ed asciutto che il ragazzo brasiliano lascia a bocca aperta tutti gli addetti ai lavori: il ruolo del trequartista, con il suo arrivo, non sarà più lo stesso. Riccardo Kakà diverrà la nuova icona del calcio italiano, il nuovo mito che bambini e bambine sogneranno di incontrare, imitando le sue giocate con indosso la maglia numero 22. Il resto è storia nota: Ricky diventa il leader della squadra, le sue galoppate da metà campo palla al piede diverranno l’emblema di un Milan vincente, che correrà a vele spiegate verso traguardi sempre più autorevoli, proprio come il suo trequartista. Nel 2007 la conquista della Champions League porta il nome del brasiliano che diventa a tutti gli effetti uno dei calciatori più forti della sua generazione, vincendo anche due trofei molto prestigiosi, il Pallone d’Oro e il FIFA WORLD PLAYER OF THE YEAR.
Il passaggio in Spagna al Real Madrid dei “Galacticos” getterà nello sconforto più totale i tifosi rossoneri, ma anche Ricky non sarà più lo stesso: l’extraterrestre che aveva ubriacato con due semplici tocchi i poveri Heinze ed Evra nella semifinale di andata della Champions League del 2007 sembra un lontanissimo ricordo. Cosi, dopo 120 partite, 29 gol e qualche infortunio di troppo Kakà riabbraccia casa: l’aria di Milano era stata cosi frizzante e salutare che i suoi polmoni dovevano respirarne ancora. Il ritorno in rossonero nel 2013 sarà perciò una conseguenza naturale della sua carriera, un saluto definitivo prima di iniziare una nuova avventura, diversa dalle altre, che lo vedrà impegnato in America con la maglia dell’Orlando City. Ed è proprio nel Nuovo Mondo che Ricky delizierà il pubblico con le sue ultime sinfonie: un repertorio vasto, fatto di spunti variegati e fragorosi proprio come i miglior direttori d’orchestra.
Ringhio Gattuso ci aveva visto giusto: “Quando Ricardo è arrivato a Milanello sembrava uno sfigato, tanto che dissi a Clarence: ma chi cacchio abbiamo preso? Iniziò l’allenamento, e alla prima accelerazione saltò Maldini come se fosse la cosa più normale al mondo … Mi sono fermato e dentro di me ho capito che era arrivato un altro fenomeno.” Auguri Ricky, di cuore!
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