Ultimo aggiornamento 14 Aprile 2017 15:20 di
Milleottocentoventisei giorni, ovvero cinque anni. Sono quelli trascorsi da uno dei giorni più tristi del calcio italiano, o meglio, mondiale. Quello in cui abbiamo visto Piermario Morosini cadere inspiegabilmente sul prato verde dello Stadio Adriatico. Senza riuscire a rialzarsi. Senza che riuscissimo a capire il perché della tragedia che si stava consumando. Senza, soprattutto, riuscire a porre un freno a ciò di cui non potevamo che essere meri spettatori. Impotenti di fronte all’odiosa realtà .
Ancor oggi, rabbia, dolore ed incredulità affollano il cuore di parenti e amici del Moro. Molti di loro erano proprio colleghi di campo, che con Piermario condividevano sogni e spogliatoio. Naturalmente, tanti quel pomeriggio erano sul rettangolo verde. Difendendo, magari, altri colori ma uniti, ricevuta la tragica notizia, anche a chilometri di distanza, dalla stessa sensazione di vuoto ed tristezza.
Fra questi, impossibile non citare Emanuele Belardi, una sorta di fratello maggiore per Morosini. Anche il portiere ex Udinese e Juve, quel giorno era impegnato, ben lontano da Pescara, nella sfida fra la sua Reggina, peraltro ex squadra di Piermario, ed il Crotone. Al termine della partita, solo lacrime per l’estremo difensore campano, raggiunto dalla voce del malore del Moro. “Non seppi – racconta ai nostri microfoni -nulla di quanto accaduto fino al termine della gara. Giunto negli spogliatoi, trovai il telefono colmo di chiamate e messaggi su quanto era successo. Non potevo crederci, non riuscivo a farlo, probabilmente non volevo. Chiamai mio fratello, sperando che mi smentisse tutto. Ma, purtroppo, non lo fece…”
Un legame, tra i due, nato in quel di Udine:“Ricordo bene che Piermario non riuscì a trovare sistemazione nel finale del mercato estivo e, vista la situazione, fu costretto a rimanere, fuori rosa, fino a gennaio, all’Udinese. Durante questo periodo, eravamo spesso insieme. Pranzi, cene, uscite. Spesso si fermava a casa mia, dato che entrambi vivevamo da soli”.
Un ragazzo che, nella sua carriera, aveva cambiato spesso maglia. Da Udine, a Bergamo, passando per Padova, Bologna e Reggio Calabria, fino a Livorno. Riuscendo sempre ad entrare nel cuore della gente, come dimostrato dall’iniziativa che vedrà tutte le ex squadre di Mario scendere in campo con il suo #25. Il motivo, secondo l’ex portiere bianconero, è presto detto:“Nonostante la vita gli abbia riservato  tante, troppe difficoltà , se c’era una cosa che non mancava mai sul suo viso, era il sorriso. Era un ragazzo splendido, una persona solare, il figlio, il fidanzato, il fratello che tutti vorrebbero avere”.
Complicità e consigli, fra i due non sono mai mancati: “Ebbi addirittura avuto un ruolo in occasione del suo passaggio alla Reggina nel 2009. La squadra, appena retrocessa in Serie B, puntava ad una pronta risalita, costruendo un organico che potesse stravincere il campionato. Chiamai Lillo Foti (all’epoca Presidente della società amaranto) . Gli dissi ‘Prendi Morosini, è un giovane dotato di un grandissimo talento’. Tre giorni più tardi, il 31 agosto, fu messo tutto nero su bianco”.
Da quel giorno sono passati, come detto, ben cinque anni, nei quali, secondo Belardi, si è ben lavorato per evitare nuove simili tragedie:“Sicuramente, la vicenda del Moro ha avuto una ricaduta importante nel contesto della sicurezza negli stadi, per quanto riguarda i giocatori. Oggi, non si gioca partita in cui non ci sia il defibrillatore a bordo campo. Bisogna anche riconoscere, però, come tutto quanto avvenuto cinque anni fa sia stato frutto di una terribile casualità ”.
14 aprile ormai ribattezzato come #moroday. “Nella tragedia – riflette Emanuele – penso che oggi Piermario sarebbe contento di tutto l’affetto che il mondo, calcistico e non, gli ha dimostrato. Dopo cinque anni sono ancora tanti i messaggi d’affetto nei suoi confronti. Senza contare il grandissimo numero di persone che, commosse e realmente toccate, ne parteciparono ai funerali”.
Storie di campo, dunque, che vanno mescolandosi con la vita umana. Messa a nudo, in tutta la sua debolezza e fragilità , in occasione di tali tragedie. Che mostrano il vero animo di quelli che, troppo spesso, siamo abituati a vedere come eroi invincibili e forse alienati dal mondo reale, “protetti” da un’armatura fatta da quello che, in realtà , è semplice e futile poliestere colorato. Ma che scopriamo, grattando la  superficie, esser uomini come tutti noi.
Come Emanuele e come Piermario.
Il quale,
ne siamo certi,
oggi continua a dare calci al pallone.