Ultimo aggiornamento 5 Febbraio 2017 21:52 di
“Il secondo è il primo dei perdenti” diceva un vincente come Enzo Ferrari. La vittoria, infatti, è un’ossessione, che può portarti a grandi gioie (bussare alle porte con scritto Conte o Mourinho) o a dolori incredibili. Ne sapeva qualcosa un signore dall’accento romano, che però da quando vive nelle Midlands e precisamente a Leicester si è scrollato di dosso questa triste nomea di eterno secondo.
Per ottenere la vittoria bisogna, però, essere anche un po’ malleabili; bisogna avere la capacità e l’abilità di cambiare strategia nei momenti delicati. Insomma, è difficile essere dei vincenti essendo degli uomini tutti d’un pezzo. Degli “hombres verticales“, in spagnolo.
L’hombre vertical del calcio è uno e uno solo: Héctor Cuper. La sua maledizione inizia ben 23 anni fa. Alla guida dell’Huracan, Cuper guida i biancorossi di Parque Patricios, barrio di Buenos Aires, a un campionato di vertice. Un evento più unico che raro per il club: infatti l’ultimo titolo risale al 1973. Partita dopo partita, l’Huracan scala la classifica, arrivando all’ultima giornata con una posizione invidiabile: ai ragazzi di Cuper basta un punto per aggiudicarsi il titolo di Clausura del 1994. Si arriva così all’ultima partita, Independiente-Huracan. Si parte, pronti per i festeggiamenti. Arriva il primo gol dell’Independiente, poi il secondo, poi il terzo e infine il quarto. 4-0, titolo consegnato nelle mani dell’Independiente e delusione per una stagione buttata via nell’ultima partita della stagione.
Héctor decide dunque di cambiare aria: rimane in argentina ma passa agli amaranto del Lanus: con loro giunge fino alla finale della Coppa CONMEBOL, con la quale sì perde l’ultima partita, ma dal momento che la finale si giocava in doppio turno, l’1-0 del ritorno non bastò a togliere la coppa dalle mani dell’hombre vertical. La vittoria convinse il Maiorca ad affidare la squadra a questo particolare mister, dalle convinzioni inattaccabili.
Nelle isole Baleari, Cuper si trova bene; i rossoneri procedono man mano verso un quinto posto in campionato e verso la finale di Copa del Rey. Al Mestalla di Valencia si incrociano il Barcellona di Louis Van Gaal (e Mourinho, parte dello staff tecnico) e il Maiorca di Cuper. Due pesi completamente diversi; eppure all’inizio la sorte sorride al Maiorca, che va in vantaggio dopo 6 minuti. Ma il dio del calcio adora l’ironia e la cabala: al 66° il Barcellona pareggia con Rivaldo. La partita si trascina fino ai calci di rigore; ce ne vorranno ben 16, prima che ad alzare la Coppa siano i catalani.
Poco male, perché la finale consente al Maiorca di partecipare alla Coppa delle Coppe. Un’occasione ghiotta, dal momento che l’edizione 1998-1999 sarebbe stata l’ultima. Dopo aver eliminato gli Hearts di Edimburgo, il Genk, i croati del Varteks e anche il Chelsea, il Maiorca incrocia le spade in finale con la Lazio di Sven-Goran Eriksson. I laziali ricorderanno benissimo la finale: gol di Vieri, pareggio di Dani e gol, decisivo, di Pavel Nedved a meno di dieci minuti dalla fine. Due finali perse in due anni.
Il bilancio tuttavia positivo convince una società attrezzata come il Valencia a puntare sull’hombre vertical: la scelta si rivela azzeccata, dal momento che nel 1999-2000 il Valencia in Champions League supera entrambe le fasi a gironi, l’odiata Lazio ai quarti, l’odiato Barcellona in semifinale e arriva in finale contro il Real Madrid. Ma come cantava De André nella Canzone di Marinella, come tutte le più belle cose, il Valencia durò un solo…tempo. I Blancos travolgono i valenciani per 3-0.
Ancora più bella e dolorosa è la stagione successiva: il Valencia supera Arsenal e Leeds e si trova in finale contro il Bayern, conquistando la seconda finale di Champions consecutiva. Nemmeno 5 minuti e Mendieta porta in vantaggio il Valencia su calcio di rigore. Sarà poi Effenberg a pareggiare i conti, sempre su rigore. E saranno proprio i rigori a decidere la finale punendo, ancora una volta, Héctor Cuper.
C’è bisogno di cambiare aria: Moratti decide di puntare sull’hombre vertical per portare l’Inter alla vittoria del suo 14° scudetto. La stagione parte bene, l’Inter una volta “sgonfiato” il Miracolo Chievo aggancia le posizioni di vertice, conquistando la vetta della classifica il 24 Marzo 2002 vincendo 3-1 con la Roma. 5 Maggio 2002, ultima di campionato. Classifica: Inter 69, Juventus 68, Roma 67. La Roma è di scena a Torino contro i granata, la Juventus è in trasferta a Udine. L’Inter è a Roma, contro la gemellata Lazio. E qui, accade l’incredibile: Vieri porta in vantaggio i nerazzurri, che per otto minuti sono sicuramente campioni d’Italia; poi Poborsky pareggia i conti, riportando tutto nell’ambiguità. Ci pensa allora Di Biagio a ricucire lo scudetto sul petto dei milanesi, ma sul finire del primo tempo ancora Poborsky decide che si deve andare negli spogliatoi sul 2-2. La classifica a fine primo tempo dice: Juventus 71 Inter 70 Roma 68. L’Inter rientra in campo, ma la testa è ormai altrove; Simeone prima e Simone Inzaghi poi lasciano definitivamente nello sgomento i nerazzurri, che vengono sorpassati anche dalla Roma passata in vantaggio a Torino con gol di Cassano. Terzo posto, con una sola partita.
Questi sono tutti i motivi (esclusa la finale di Coppa di Grecia raggiunta con l’Aris Salonicco e persa 1-0 contro il Panathinaikos) per cui quella di stasera, quell’inspiegabile 2-1 subito dal Camerun, è l’ennesima nota di una stupenda sinfonia, la triste colonna sonora di un eroe, un filosofo. Un uomo che, nonostante le continue sconfitte, a 61 anni ha ancora voglia di insegnare calcio e di inseguire quella vittoria che gli manca. E che forse gli mancherà sempre. Il secondo è il primo dei perdenti. E, sotto sotto, il primo dei nostri cuori.