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Zamparini e i presidenti vulcanici: una storia tragicomica e nostalgica

Quando ti chiami Maurizio Zamparini non riesci più a stupire nessuno, neppure se ti ci metti d’impegno. Il record di allenatori esonerati (60 in 29 anni) sembrerebbe ad oggi un primato assolutamente imbattibile dai presidenti di tutto il mondo, e con ogni probabilità non finirà certo oggi con l’addio a De Zerbi e l’arrivo di Corini. Ma in questo calcio italiano, che sta diventando preda di cinesi incapaci di pronunciare il nome della squadra, americani, industriali, prestanome, sconosciuti, gente che viene e che se ne va… è rimasto qualcosa di veramente caratteristico che possa fare la differenza tra una squadra anonima e una squadra celebre a chiunque?

I PRESIDENTI VULCANICI

In questa piccola inchiesta ripercorriamo un calcio che era e un calcio che ancora resiste, quello dei presidenti “vulcanici”, che fanno di tutto per la loro squadra – in bene e in male -, e che restano nella storia per i loro caratteri fuori dal comune, trasformandosi in idoli dei tifosi e/o in prede stile caccia all’anatra.

PIERO CAMILLI

Imprenditore dalle notevoli risorse finanziarie e sindaco di Grotte di Castro tra le voci del curriculum, Camilli nel lontano 2000 compra il Grosseto, squadra che non ha mai avuto una grande tradizione e che di conseguenza non ha mai raggiunto grossi traguardi. Dal pantano della Serie D arriva nel giro di 7 anni (tra promozioni dirette e finali play-off) nell’incredibile Serie B che nessuno in Maremma avrebbe mai pensato di vedere nel piccolo stadio Zecchini. I tifosi imparano ad amarlo per il suo carattere focoso e sprezzante del pericolo (solo chi lo ha visto allo stadio sa di cosa è capace), ma anche a odiarlo per le sue scelte: Camilli, detto anche il comandante, assume e silura allenatori e dirigenti con una frequenza che ha dell’imbarazzante.

Nelle sue ultime due stagioni alla guida del Grifone ha una media di un allenatore ingaggiato ogni 3 mesi (considerando anche i mesi estivi). Gli ultimi anni sono da capogiro: nel 2012 il processo Calcioscommesse vede Grosseto retrocessa dal tribunale (ritrattando in appello con una penalizzazione di 8 punti) per poi retrocedere in campo. Seguono le minacce (a cui i grossetani erano abituati) di non iscrivere più la squadra al campionato, e infine la fuga, un po’ inaspettata e un po’ no, che ha portato nel 2015 Grosseto a ripartire dalla serie D, dove milita tutt’ora. Attualmente Piero è al timone della Viterbese Castrense che, nella sua prima stagione da presidente, è stata promossa in Lega Pro. Attendiamo con ansia le prossime mosse di quello che tanti, malignamente, avevano soprannominato “lo Zamparini della Serie B”.

LUCA POMPONI

Innanzitutto da segnalare il cognome, da leggere bene per non confondersi: Pomponi, con due o. Uno dei tanti esempi di come il calcio in Italia possa diventare oggetto di speculazioni personali, truffa e delinquenza pubblica. E’ il 2008: il Pisa ha concluso una fantastica stagione in B (la prima dal fallimento negli anni 90). Il vecchio presidente Covarelli cede la sua società a Pomponi, che sbucato dal nulla diventa per un’estate il salvatore della patria. Via i pezzi pregiati della squadra, si cerca di riassemblare una società con qualche falla da tappare, ma il nostro eroe, dietro ai suoi occhiali scuri e alla sua pelle ben abbronzata, fa buon viso a cattivissimo gioco: la classifica, che fino a dicembre non era così deficitaria, sta inesorabilmente spaventando la tifoseria, specialmente dopo aver preso per tre partite di fila 4 reti (perdendo senza appello). Il mercato non aiuta, l’amato allenatore Giampiero Ventura si dimette perché non riesce a gestire un organico incapace di reagire.

Ma Pomponi non si scompone: si va avanti. Ultima giornata di campionato: il Pisa ha una possibilità su 100 di retrocedere, visto il gran numero di squadre in cerca della salvezza. Quell’unica possibilità arriva al 91° minuto di un Pisa-Brescia che tutti davano per scontato, e che invece vede il gol di Zambrella regalare un’inutile vittoria per le rondinelle e una rabbiosissima retrocessione pisana. E’ il caos: Pomponi lancia accuse ai giocatori, rilancia ambizioni, tenta senza successo di placare l’ira nerazzurra (un semaforo finito in campo a fine partita) con promesse e specchietti per le allodole. Nel momento del dunque si scoprono gli altarini: Pomponi non ha un soldo, e fino a quel momento è riuscito a creare un debito di 10 milioni nelle casse pisane. Scappa via con quello che può e diventa ricercato dalle forze dell’ordine per riciclaggio: non esiste più alcun Pomponi, non esiste più alcun Pisa. E la cosa sconvolgente è che il suo “erede” Petroni potrebbe ripercorrere gli stessi fasti.

GIAMPIETRO MANENTI

Ci sono presidenti che distruggono una squadra, creando debiti a più non posso. E poi c’è lui: Manenti, l’uomo più odiato della storia calcistica, l’evoluzione ai massimi livelli di ciò che non si può vedere in una società seria e competente. Il Parma ha debiti che è riuscita a nascondere a tutti fino all’estate 2014, quando l’iscrizione all’Europa League (raggiunta all’ultimo respiro) non può essere effettuata. E’ il preludio al dramma: gli stipendi vengono sospesi, Gherardi scappa, la società passa al tribunale fallimentare: alla modica cifra di un euro si può acquistare una squadra di calcio.

In principio fu Taçi, riccone albanese, ad approfittare di questi saldi fuori stagione, ma stufo del giocattolo, lasciò quasi subito. Ed ecco che fa la comparsa il buon Giampietro: senza nessuna garanzia, progetti, soldi e/o una qualsiasi parvenza di organizzazione, Manenti si precipita ad acquisire la presidenza della società e rilascia una quantità di fumo abnorme ai giornalisti e ai tifosi, millantando risoluzioni ad ogni evenienza. Nessuno gli dà credito, nessuno si fida di lui: il Parma per pagare gli arretrati mette in vendita qualsiasi cosa, i giocatori scappano. Manenti continua a garantire a vuoto, e quando iniziano ad arrivare le inchieste, i conti hackerati, le carte di credito clonate, le inibizioni e l’arresto per reimpiego di capitali illeciti, il prestigiatore si dissolve, e con lui la storia del Parma.

LUCIANO GAUCCI

Il Perugia che tutti ricordiamo, quello dei vari Nakata, Materazzi, Liverani, Serse Cosmi, Rapaijc, e tanti altri nomi diventati poi storici, è quello targato Lucianone Gaucci, uomo indimenticabile per le sue mille sfaccettature, le sue apparizioni televisive mai scontate, capace di poter stupire sempre. Con la sua goliardia, e con le sue uscite al limite tra il rocambolesco e il romanzesco, passa alla storia per milioni di motivi pittoreschi.

Ne citiamo solo alcuni: nella stagione 2003/04 (anno in cui gioca la Coppa Uefa) ingaggia il figlio di Gheddafi, Saadi. E’ solo una trovata pubblicitaria: il libico scenderà in campo giusto qualche minuto contro la Juventus, ma la notizia rimbalza ovunque dando risalto alla realtà perugina. Nel ’99, al termine di Perugia-Bari 1-2, affronta l’arbitro Pellegrino ricordandogli un torto subito, per poi esplodere contro Matarrese (presidente del Bari) reo di aver pronunciato la seguente frase: “Gaucci, noi siamo di serie A!”. Ci volle un gruppo nutrito di persone per fermare la sua ira funesta, il tutto ripreso dalle telecamere. Concludiamo con il licenziamento in tronco del coreano Ahn, reo di aver eliminato l’Italia nella tremendo ottavo di finale del mondiale 2002 arbitrato dal genio incompreso Byron Moreno. I perugini ricordano anche il fallimento e la sua fuga in Repubblica Dominicana, dove intraprese una carriera da grattatore di pancia all’ombra delle palme, in compagnia di donne e latte di cocco. Anche questo è Gaucci.

VITTORIO CECCHI GORI

Un presidente fiorentino alla guida della Fiorentina: un sogno. Ancora di più se si tratta di un riccone. Vittorio Cecchi Gori, magnate del cinema italiano, eredita dal padre Mario la società viola e conquista Firenze a suon di battute e imitazioni nei programmi televisivi.

Ma è soprattutto grazie a due colpi di mercato che segna la storia dei gigliati: Gabriel Batistuta e Manuel Rui Costa. Con loro la Fiorentina diventa una squadra terribile, capace di vincere contro tutto e tutti, di arrivare in Champions League e di portare trofei che latitavano da anni nelle bacheche della società. Non sarà mai una squadra capace di vincere il campionato, ma in quegli anni era difficilissimo uscire incolumi dal Franchi. Vittorio si distingue dalla massa anche per il suo successo con le donne (per alcuni inspiegabile data la sua non eccellente bellezza): la più celebre delle sue relazioni rimane quella con Valeria Marini, all’epoca dei fatti quanto di meglio si poteva ottenere dal jet-set italiano. Anche lui però, come molti, farà una brutta fine: il crollo del suo impero cinematografico trascinerà la Fiorentina prima in serie B (svendendo tutti i pezzi migliori della rosa) per poi fallire e ricominciare dalla C2 con il nome di Florentia Viola, squadra che, contrariamente al nome, scendeva in campo con un completo interamente bianco.


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MASSIMO CELLINO

Alla guida del Cagliari per più di 20 anni, Cellino si è contraddistinto per una marea di particolarità e peculiarità che lo hanno portato ad essere uno dei personaggi più noti del recente periodo del calcio italiano. Mangia allenatori, scaramantico come pochi (un particolare odio nei confronti del 17) e chitarrista di pregevole livello, Massimo attraversa momenti di luce e ombra alla guida dei sardi: dalla Coppa Uefa alle retrocessioni, passando per questioni legali che lo vedono spesso nei tribunali.

La più famosa rimane senza dubbio quella dello stadio, che ha visto il Cagliari emigrare a destra e sinistra, senza capire quale poteva essere la sua vera casa, tra stadi da ristrutturare (Sant’Elia) stadi mai esistiti (Elmas) stadi inagibili (Is Arenas) e stadi vuoti, e ben lontani, dal capoluogo sardo (Trieste su tutti). Logorato da tanta burocrazia, tenta di scappare dall’Italia per emigrare in Inghilterra: ci prova nel 2010 acquisendo il West Ham, ma senza successo. Ci riprova nel 2014 con il Leeds United; inizialmente sembra farcela, ma un processo a suo carico (uno dei tanti) in cui era stato condannato, costringe la Football Association (la federazione inglese) a stoppare le trattative. Il ricorso viene vinto, e finalmente Massimo può coronare il suo sogno: scappare via da un paese che non lo ha amato quanto desiderava e ripartire da zero. Anche se le cose in Britannia non gli stanno girando proprio bene: la promozione in Premier per ora è solo un miraggio.

ROMEO ANCONETANI

Un personaggio che purtroppo la vita odierna di questo calcio, così schiavo del marketing, dei petroldollari e di un moralismo eccedente, non potrà più tornare. Un uomo che faceva della mediaticità la sua arma vincente: ovunque si trovasse, che fosse in una tv nazionale o provinciale, o ad un qualsiasi evento, la sua presenza non passava mai inosservata, rendendo quest’uomo idolatrato dai suoi tifosi. Fu uno degli ultimi a fare “per davvero” il presidente di una squadra di calcio: non aveva industrie, imprese, banche o quant’altro; lui aveva il Pisa, e il Pisa era la sua vita. Lo ha dimostrato in ogni sua scelta, buona o cattiva che fosse, rendendolo agli occhi di tutti un presidente incredibilmente umorale, capace di proclamare prosperità per una minima vittoria e punire i suoi sottoposti al primo inconveniente.

Impossibile non citare la sua usanza di spargere il sale prima delle partite, gesto che lo ha reso celebre in ogni bar dello sport. Fatevi un giro a Pisa: sentirete molto su di lui, ma non ne sentirete mai parlare male.

COSTANTINO ROZZI

I ragazzi nati dagli anni ’80 in poi difficilmente hanno sentito parlare di quest’uomo: dal suo viso mansueto si nascondeva un carattere focoso e pieno di grinta, per niente impressionabile e pronto a combattere le sue battaglie con forza e determinazione. Il suo Ascoli, squadra medio-piccola del panorama italiano, aveva una marcia in più se al volante si sedeva lui, e poco importava se i “nemici” si potevano chiamare Juventus, Milan, giornalisti o arbitri: nessuno metteva paura al “presidentissimo”, e la sua schiettezza, assieme al suo essere “terra terra” vicino al pubblico, aumentava a dismisura lo share di programmi come “Il Processo di Biscardi”.

Temi come la lotta allo strapotere delle grandi e di bilanci impossibili venivano combattuti da lui con ferocia, temi che ancora oggi appestano un calcio italiano spesso preda di gestioni folli e debiti impossibili da cancellare. Ai suoi funerali parteciparono circa 20mila persone, non male per un uomo passato alla storia come “il presidente con i calzini rossi”.

ANTONIO SIBILIA

Una vita spesa per l’Avellino: si possono descrivere così i quasi 50 anni di storia che hanno visto quest’uomo amare e lasciare la società irpina con rabbia e passione, la stessa che lo portava ad essere discusso per il modo con cui trattava le sue finanze e i suoi giocatori. Di lui si ricorda soprattutto il suo modo di parlare, spesso pieno di strafalcioni linguistici, frutto di una veracità e di una sincerità genuina unica nel suo genere. Non aveva paura a dire quello che pensava, anche se si trovava solo contro tutti: curioso il caso in cui non tesserò l’argentino Ricatti perché capellone.

Legato alle tradizioni e contrario alle modernità, ha avuto più di un guaio con la legge a causa di frequentazioni di stampo camorrista: la consegna da parte di Juary (famoso per i suoi balletti di samba nella bandierina del calcio d’angolo) di una medaglia al boss Raffaele Cutolo non passò inosservata. In un mondo pieno di cinesi, americani e arabi, non potrebbe esistere un presidente come lui. In un calcio moderno che sta perdendo anima e bandiera, non potrebbe esistere Antonio Sibilia.

This post was last modified on 1 Dicembre 2016

redazione

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