Avendo battuto il Perù per 2-1, grazie alle reti di Arturo Vidal e agli assist di Mauricio Isla, vecchie conoscenze del nostro campionato, il Cile di Juan Antonio Pizzi è ora a soli tre punti di distanza dall’ultima qualificata diretta per il Mondiale del 2018.
Un obiettivo che fino a una settimana fa sembrava irraggiungibile, quando la Roja perse 3-0 per mano dell’Ecuador e il distacco era già di 5 punti alla fine del “girone d’andata” del gruppo di qualificazione sudamericano. Ma questo Cile ci ha sorpreso negli ultimi anni per il suo eccezionale carattere, prima ancora che per l’ottimo tasso tecnico.
L’esplosione di questa squadra è stata sorprendente: il Cile, infatti, non aveva mai avuto tanti successi nella storia passata. Un terzo posto al mondiale casalingo nel 1962, 4 finali di Copa América (1955-1956-1979-1987), una sola Copa Libertadores vinta da un suo club, il Colo-Colo, che ha compiuto un vero miracolo nel 1991.
Il Cile è rimasta quindi una squadra di seconda fascia, all’interno del mondo sudamericano, dietro le “solite” Argentina, Brasile e Uruguay. Tutto questo fin quando la Federacion de Futbol de Chile non ha voluto sostituire il CT Claudio Borghi con Jorge Sampaoli.
Jorge è nato a Barracas, un quartiere di Casilda, cittadina nella provincia di Santa Fe, Argentina. Una vita tormentata, la sua: il padre, agente di polizia, morto per un carcinoma polmonare, la madre sola a crescerlo, la sua carriera da calciatore stroncata a 19 anni per la frattura della tibia. Jorge, dopo quell’infortunio, accetta diversi lavori, come ad esempio l’impiegato in un istituto di credito o il giudice di pace, ma la sua testa è ancora rivolta a quel maledetto campo.
A 34 anni, diventa allenatore dell’Alumni de Casilda, la squadra della sua città, che guida, alternandosi con altre squadre della provincia, fino al 2001. Lì la grande chiamata: il Juan Aurich, squadra peruviana, lo vuole con sé. In Perù allena diverse squadre, come lo Sport Boys, il Bolognesi e lo Sporting Cristal, ottenendo buoni piazzamenti ma niente più. Come il Cile.
Nel 2007 viene contattato dall’O’Higgins, squadra cilena di Rancagua. Nel 2009 lascia la squadra per accasarsi all’Elemec, squadra ecuadoregna, prima di tornare in Cile nel 2010. Il 2010, l’anno in cui tra l’altro il Cile è tornato a disputare una fase finale di un mondiale di calcio dopo ben 12 anni, è il momento della consacrazione.
Assunto dall’Universidad de Chile, una delle tre grandi del campionato cileno insieme al Colo-Colo e all’Universidad Catolica, Jorge Sampaoli completa la trasformazione da brutto anatroccolo in bellissimo cigno. Vince il Campionato d’Apertura del 2011 (in Cile girone d’andata e girone di ritorno sono due diversi campionati), quello di Clausura dello stesso anno, ottenendo anche il record di 9 vittorie consecutive nelle prime 9 giornate, e anche quello d’Apertura 2012, completando così il tris di vittorie.
Non solo, porta la sua Universidad de Chile a vincere la Copa Sudamericana del 2011, battendo in finale il LDU Quito, allenato da un certo Edgardo Bauza…
L’Universidad diventa quindi la prima squadra cilena ad aggiudicarsi la Copa Sudamericana, portando così a due il computo di trofei continentali vinti dal Cile. Il lavoro di Sampaoli è talmente eccezionale che l’IFFHS, la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio, dichiarerà, il 1° giugno del 2012, la U (come i tifosi soprannominano l’Universidad de Chile) seconda miglior squadra del mondo, dietro solo al Barcellona.
Con questo curriculum, puntare su Sampaoli non era certo un azzardo, anche se effettivamente sperare in qualcosa più di una qualificazione era improbabile. Complice il Brasile già qualificato in qualità di nazione ospitante, il Cile si qualifica, grazie alle reti di Arturo Vidal e del pupillo di Sampaoli, Eduardo Vargas.
L’esordio mondiale contro l’Australia è una passeggiata, e i cileni vincono per 3-1. Il passaggio del turno, però, sembrava decisamente improbabile: nell’altro campo si erano sfidate la Spagna e l’Olanda e gli Orange avevano vinto per 5-1. Se gli olandesi sembravano imprendibili, una reazione già nello scontro diretto tra Cile e Spagna sembrava il minimo che potesse succedere.
Rio de Janeiro, 18 giugno 2014. La Spagna, allenata da Vicente del Bosque, schiera tra i pali Casillas, in difesa Jordi Alba, Ramos, Piqué, Azpilicueta, a centrocampo Iniesta, Javi Martinez e Xabi Alonso, mentre l’attacco sarà retto da Pedro Rodriguez, Diego Costa e Silva. Il Cile di Jorge Sampaoli risponde con Bravo in porta, difesa a 3 con Silva, Jara e Diaz, sulle fasce Isla e Mena, al centro Vidal, Medel e Aranguiz, alle spalle dei due attaccanti, Vargas e Alexis Sanchez.
Una squadra composta da 11 campioni contro un’altra con diversi buoni giocatori ma nulla più. Ma a carattere non c’è discussione: il Cile vince 2-0 con due gol al primo tempo, prima Vargas e poi Aranguiz. La sconfitta per 2-0 subita nell’ultimo quarto d’ora per mano dell’Olanda fa qualificare come seconda la Roja.
Agli ottavi, il Cile incontra il Brasile padrone di casa, che dopo essere andato in vantaggio nei primi venti minuti con David Luiz, viene raggiunto dagli Andini grazie alla rete di Alexis Sanchez. Riesumando lo spirito battagliero che anche la nostra nazionale ha saputo conoscere, in quella Battaglia di Santiago, il 2 giugno 1962, quando grazie a due cartellini rossi ricevuti rispettivamente da Mario David e Giorgio Ferrini, la nazionale cilena ci ha battuto per 2-0, il Cile del 2014 tenne inchiodato il risultato sull’1-1. Proprio all’ultimissimo minuto un gran tiro fuori area di Mauricio Pinilla centrò la traversa, portando la sfida ai calci di rigori. Vincerà poi il Brasile, ma il Cile si era consacrato come squadra temibilissima.
La strada per il successo, però, era già stata intrapresa: bastava aspettare un solo anno. Copa América 2015: si gioca in Cile, dove l’ultima edizione era stata disputata nel 1991 (ricordate il vincitore della Copa Libertadores 1991?). Dopo aver vinto il suo girone di qualificazione, il Cile ha battuto l’Uruguay grazie a un gol di Isla. Superato in semifinale il Perù di Paolo Guerrero, il Cile ha incontrato l’Argentina. Sapendo di non poter competere a livello tecnico, i ragazzi di Sampaoli la giocano quasi esclusivamente sul piano fisico. La finale si trascina fino ai supplementari e poi ai rigori. Diversamente da quanto successo in Brasile, il Cile segna tutti e 4 i suoi rigori, mentre Higuain e Banega consegnano con i loro errori la Copa América 2015 al Cile. La prima coppa della loro storia, vinta in casa loro.
Santiago è in festa, le famiglie di Bravo, Silva, Diaz, Medel, Isla, Aranguiz, Vidal, Beausejour, Valdivia, Vargas, Sanchez e di tutti gli altri sono raggianti. I loro ragazzi hanno compiuto un miracolo. Gioiscono i loro vecchi allenatori del Colo-Colo, dell’Universidad Catolica, dell’Universidad de Chile, del Cobreloa (la squadra dove è “nato” Alexis Sanchez). E mentre l’Argentina piange, una sola casa sta festeggiando.
Si trova in provincia di Santa Fe, a Casilda, nel quartiere di Barracas. Sul campanello c’è scritto Odila Moya, vedova Sampaoli.
E poco importa se il Cile ha rivinto la Copa América Centenario quest’estate mentre Jorge ha già preso servizio in quel di Siviglia, per iniziare a vincere anche in Europa. Quello che conta è che la nazionale cilena ha saputo creare il giusto mix di talento e attributi, di classe e cuore, di sangre y alma, sangue e anima.
E finché questi ragazzi lotteranno, che sia nel derby tra Colo-Colo e Universidad de Chile, o in quello tra la U e l’Universidad Catolica, o nella sfida internazionale tra Cile e Perù, le nazionali andine. I cileni sanno che nel loro DNA c’è stato, c’è e ci sarà sempre la capacità di lottare. Sangre y alma.
This post was last modified on 15 Ottobre 2016
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