Manchester, 10 settembre 2016. Sembrerebbe un giorno come tutti gli altri, un tranquillo sabato in cui gli abitanti dormono un po’ di più perché reduci da un’intensa settimana di lavoro. Il clima è il classico di inizio-metà settembre in Inghilterra: temperatura confortante e una leggera brezza a rinfrescare le vie della città. Io però non posso dormire fino a tardi: la sveglia suona intorno alle 7.30, devo fare una leggera colazione e pensare a ciò che si sta avvicinando. Oggi, alle 13.30, tocca a me. Oggi, alle 13.30, avrò tutti i riflettori puntati addosso. Oggi, 10 settembre 2016, alle 13.30, va in scena il derby di Manchester. Mi ritornano in mente i tempi in cui abitavo a Lagos, in Nigeria, dove sono nato vent’anni fa. Lì sì che ci si sveglia presto. Se a Lagos non ti svegli presto e non ti dai da fare rischi di morire di fame. I ragazzi come me o lavorano per una miseria di ricompensa, o tentano la via del calcio come è successo a me, oppure finiscono per diventare delinquenti dentro qualche gang. Già, brutta storia laggiù: dimenticati da tutti, eppure siamo in tanti, milioni di persone. Come è possibile che venti milioni di persone vengano dimenticate dall’intera popolazione mondiale?
Raggiungiamo l’Old Trafford, uno stadio bellissimo che è stato calcato dai più grandi calciatori della storia. Negli istanti prima della partita mi piace ascoltare musica, mi carica, mi dà quella spinta necessaria per entrare in campo e farmi valere. Pep parla molto con me e mi spiega tutti i movimenti che devo fare: ascolto con pazienza perché so che questa per me è un’occasione unica. Ormai ci siamo, la partita sta per iniziare e mi guardo intorno. Vedo uno stadio pieno di persone, sono in migliaia ad urlare. Un boato. Improvvisamente mi viene in mente Lagos con i suoi quartieri, mi vengono in mente le urla della gente quando sentono sparare, quando vedono corpi di persone uccise per pochi spiccioli, mi viene in mente la sofferenza del mio Paese, di quella Nigeria che io sto rappresentando in questo momento. Non so se qualcuno laggiù mi stia guardando, le televisioni sono roba per pochi, però ci spero molto e spero anche di rendere orgogliosi i miei connazionali.
Se si potesse paragonare la vita ad una partita di calcio direi che laggiù, in Nigeria, le persone sono costantemente sul filo del fuorigioco così come lo ero io nell’azione del gol nel derby. Le persone, a Lagos, sono su una linea sottile fra l’essere in gioco e il non esserlo, sulla linea tremendamente instabile fra la luce del sole e l’oscurità della giungla, fra la vita e la morte. Io la partita più importante l’ho vinta, ho sconfitto l’oscurità, ho sconfitto la morte. Ho visto il sole sempre più vicino e l’ho raggiunto. Sono stato in gioco e ora segno in questa partita meravigliosa che è la vita. E mentre penso a tutto ciò, abbraccio i miei compagni di squadra e nel cielo si alza il boato dei miei tifosi. Mi rendo conto di quanto sia stato fortunato nella vita. E sono felice.
Giuseppe Gerardi
This post was last modified on 14 Settembre 2016
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