Francesco Totti, prossimo 40enne, con l’eliminazione della sua Roma da parte del Porto, ha quasi sicuramente perso l’ultima occasione della sua carriera di far vincere ai giallorossi la Champions League. Si doveva comunque fare un’impresa, ma di certo tutti si aspettavano quantomeno la qualificazione alla fase a gironi.
Ma così non è stato e Totti, pur essendo già entrato per sempre nella storia del calcio italiano, deve arrendersi per quanto riguarda la coppa. Ciò che ci si domanda è: c’è stato qualche giocatore italiano che sia riuscito a vincere la Coppa dei Campioni con il club nel quale è cresciuto? La risposta è affermativa, e sono tantissimi: praticamente tutto il Celtic del 1967, buona parte delle vittorie delle squadre inglesi, la cantera del Barça, l’Ajax dei primi anni ’70…
Ma per l’Italia? Per l’Italia ci sono stati validissimi elementi che sono riusciti nell’impresa, e verranno presentati brevemente in questa gallery.
PAOLO ROSSI
Molti non lo sanno, ma Paolo Rossi fu un giocatore della Juve sin dal 1972. Dopo alcuni anni in squadre giovanili nella città natale di Prato, Paolo si trasferì a Firenze per giocare nella Cattolica Virtus. Compiuti i 16 anni, Italo Allodi (uno dei migliori DS dell’epoca) dovette viaggiare fino a casa della famiglia Rossi per convincere la madre a lasciar partire il figlio. Inizialmente scettica poiché anche il fratello di Paolo, Rossano, fu preso dalla Juve e scaricato in un anno, la signora fu convinta dalla “modica” cifra di 14,5 milioni di lire.
Dopo aver viaggiato in lungo e in largo per l’Italia (Como, Perugia ma soprattutto Vicenza), Paolo torna alla Juventus, dove vince un Pallone d’oro, conquistato grazie al Mundial, e 6 titoli in 4 anni, di cui la Champions League vinta ai danni del Liverpool nella dolorosa finale dell’Heysel. Dopo la vittoria passa un anno al Milan e uno al Verona, prima di terminare la carriera.
GIOVANNI TRAPATTONI
Il Trap nasce a Cusano Milanino nel 1939 e nel 1960 è già titolare nel Milan, squadra nella quale è cresciuto sin da ragazzo. Merito, soprattutto, del paròn Nereo Rocco, che ne intuisce le straordinarie doti da mediano e lo schiera perennemente, facendolo diventare una colonna del primo grande Milan. È in Nazionale sempre dal 1960 e dal 1962 è campione d’Italia. Nel maggio 1963, in un’amichevole giocata contro il Brasile 10 giorni prima della finale col Benfica, Trapattoni marca Pelé. Lo marca bene. Stretto. Tanto che Pelé praticamente non vede il pallone. L’Italia vince 3-0.
Vittoria che verrà bissata appunto il 22 Maggio 1963, quando la doppietta di Altafini basterà a battere in rimonta il Benfica di Eusébio. Trapattoni poi rivincerà la coppa da giocatore nel 1969 (ai danni dell’Ajax) prima di trasferirsi al Varese per un paio d’anni. Ma gli insegnamenti di Rocco sono ormai entrati nel DNA di Trapattoni, che da allenatore si dimostra anche più bravo che da giocatore: tra i suoi record ci sono i 7 scudetti vinti, 6 con la Juve e 1 con l’Inter, 3 coppe UEFA, 2 con la Juve e una con l’Inter, e la coppa dei Campioni conquistata, nel 1985, ancora con la Juve. Senza contare le fortunate esperienze in Germania, Portogallo, Austria e Irlanda.
DEMETRIO ALBERTINI
Brianzolo, Demetrio entra a far parte della famiglia Milan nell’epoca più difficile: si trova stabilmente nel settore giovanile rossonero, infatti, proprio durante la crisi societaria e l’arrivo del presidente Silvio Berlusconi. Intuendone la classe, ma non potendo concedergli spazio visti i mostri sacri con cui avrebbe dovuto vedersela, il Milan manda Albertini in prestito a Padova. Una stagione strepitosa, condita dal premio Diadora di “miglior speranza del calcio italiano”, convince la dirigenza a riportarlo a casa.
Demetrio ripaga con prestazioni di altissimo livello, andando a vincere la coppa nel 1994 contro il Barcellona, momento top dell’era Capello. Prestazioni che gli valgono la Nazionale e le edizioni tanto eroiche quanto sfortunate del Mondiale USA ’94 e di Euro 2000 nel Benelux. Messo ai margini del Milan poiché Ancelotti gli preferisce il giovane Pirlo, Albertini va all’Atlético Madrid, poi alla Lazio, all’Atalanta e infine al Barcellona, dove chiude la carriera. Ora ha iniziato una carriera dirigenziale in seno alla FIGC, nella speranza di poter cambiare in meglio il calcio italiano.
SANDRO MAZZOLA
Aveva solo 7 anni, il piccolo Sandro quando papà Valentino Mazzola morì, in quel tragico e mai abbastanza compianto incidente di Superga. Un colpo durissimo, un dolore atroce. Che però non fa diminuire la passione per il calcio. Nonostante quello sport abbia portato via, indirettamente, suo padre, Sandro Mazzola si impegna, sgomita, segna. Vuole vendicare quell’oltraggio subito dal destino. Viene notato da Giuseppe Meazza, che lo fa arrivare all’Inter giovanissimo. Esordisce in A nel 1960, a 18 anni, in un match contro la Juve. Per protesta dei nerazzurri, vennero schierati solo i giocatori delle giovanili. Vinse la Juve 9-1. Il gol della bandiera fu, ovviamente, di Sandro Mazzola.
Mazzola poi non lascerà mai l’Inter, divenendo il faro e il goleador del ciclo della Grande Inter, vincendo 4 scudetti, 2 coppe dei campioni, 2 coppe intercontinentali e, con la nazionale, l’unico europeo della nostra storia. Più forte Valentino o Sandro? Difficile dirlo. Forse impossibile. L’unico giudizio lo possiamo avere da Ferenc Puskas. L’asso ungherese del Real Madrid, dopo la finale di Vienna in cui l’Inter vinse per 3 a 1 con doppietta di Sandro, si tolse la maglietta e la diede al 22enne Sandro. Dicendo “Tienila, perché sei degno di tuo padre”.
ALESSANDRO COSTACURTA
Arrivato al Milan alla tenera età di 13 anni, Alessandro Billy Costacurta emerge grazie sia a un’esperienza nel Monza, in prestito, sia grazie all’arrivo di Arrigo Sacchi sulla panchina meneghina. Se infatti con la positiva parentesi brianzola il giovane difensore si era guadagnato il ritorno a “casa base”, è con Sacchi che Billy ottiene i primi successi, alternandosi con Filippo Galli.
In seguito diviene riferimento in campo per tutti gli allenatori che si susseguono: Capello, Zaccheroni ma soprattutto Ancelotti. Anche se con Carletto le presenze diminuiranno, data anche l’età che avanza imperterrita, ciò non gli impedisce di vincere ancora. Alla fine sono ben 5 le Champions League vinte. Nel 2007 termina la carriera segnando su calcio di rigore e divenendo, a 41 anni, il più anziano marcatore della Serie A.
ALESSANDRO DEL PIERO
Il piccolo Alessandro è un ragazzo straordinario, prima ancora di essere un calciatore di indubbie qualità. Gioca nella squadra dell’oratorio della sua città, San Vendemiano; deve ogni volta mediare tra mister e madre, poiché la signora Del Piero pretendeva che il suo ragazzo giocasse in porta, nonostante le spiccate doti offensive. “Non vorrei si ammalasse prendendo freddo”, diceva. Fortuna volle che non venne ascoltata e, con la complicità del parroco, venne mandato al Padova, prima di essere aggregato al settore giovanile della Juventus.
Portato da Boniperti a Torino, il ragazzo vive un sogno. Giocare per la squadra che ha sempre tifato, sin da ragazzo. Partito dalla più lontana periferia della più lontana provincia veneta. Un sogno che per molti, anche oggi, rimane fantasia. E in fin dei conti questo è, era e sempre sarà Del Piero. Il realizzatore dei sogni dal cuore umile. Colui che può regalarti una Champions, un Mondiale, una promozione in Serie A. Sempre con la lingua di fuori. Lasciando il 10 a chi, come lui, da una lontana provincia va alla scalata del mondo.
FRANCO BARESI
Da ragazzo, il sogno di Franco era quello di giocare e vincere tutto insieme al fratello Beppe, in forza all’Inter già da un po’. È il 1975 quando anche Franco fa un provino con i nerazzurri, che però lo scartano. “Fisico non adatto”. Italo Galbiati approfitta e lo prende sotto la sua ala protettiva, portandolo al Milan. Che non esita nemmeno un minuto nel tesserare quello che poi diventerà uno dei più straordinari difensori della storia rossonera.
Superati gli screzi con Capello e Albertosi, ottenuta la stima di Rivera, Baresi acquista sempre più spazio. Nonostante mille peripezie (due retrocessioni in B, una malattia del sangue, qualche screzio con Sacchi), mette a segno qualcosa come 719 presenze, tra cui 5 finali di Champions League, con 3 vittorie. Si ritira, nel 1997, a 37 anni. Rifiutando tante sirene estere. La maglia numero 6, fedelmente indossata dal fratello “non adatto” è stata ritirata dal Milan.
PAOLO MALDINI
Quella maglia, per il giovane Paolo, pesava. Ma non etti, o chili. Quintali, macigni. La maglia più pesante. Con quel nome “Maldini”. E la gente che, quando questo ragazzone nato a Milano ma con un accento tendente al triestino, si chiedeva “sarà mai come il padre?”. Come se non si possa essere qualcosa di diverso. O, addirittura, qualcosa di migliore.
Ma Paolo non ascolta, non si cura delle voci. Lavora sodo, lavora duro. Guadagna il posto scalzando Evani. Guadagna rispetto quando Baresi lascia. Diventa il capitano. Lotta, suda, corre. Ferma tutti con eleganza. Non impara da nessuno, insegna a tutti i suoi compagni di reparto. Segna il gol del vantaggio di quella stregata notte di Istanbul. Alza la coppa pochi chilometri più in là, ad Atene. Sente i fischi di parte della Curva Sud il giorno del ritiro. Non viene richiamato dal Milan nonostante un periodo di crisi nera. Ma quella maglia non pesa più. È parte di lui. Perché è lui, il vero capitano del Milan. E lo sarà per molto tempo ancora.
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