C’è un accessorio elasticizzato apparentemente insignificante che fatica a catturare l’attenzione di chi sta guardando una partita di calcio. E’ sempre più difficile, infatti, per la fascia di capitano, farsi largo tra sponsor, marchi, dogmi, inserti improbabili, decorazioni, medaglie al valore e tatuaggi. Eppure quella fascia c’è, e per il calciatore che la indossa non c’è niente di più importante. Neanche la maglia a cui è stretta. La fascia di capitano è il teatro della sfida infinita tra onore e onere che non prevede il pareggio, men che meno il pareggio a reti inviolate: al limite, si va ai rigori. Tra i duellanti che si giocano l’equilibrio psico-fisico del capitano e – spesso – dell’intera squadra sussiste infatti un rapporto inversamente proporzionale: al crescere dell’onore decresce l’onere, e viceversa.
L’ONORE. Esiste un posto in cui la compagine onoraria gioca sempre in casa e batte sistematicamente l’onere: il braccio sinistro di Wayne Rooney, capitano del Manchester United e della nazionale inglese. Fusione perfetta tra classe, forza, tradizione, altruismo, generosità e temperamento, Rooney rappresenta l’archetipo del capitano perfetto. Questo inizio di stagione lo ha ribadito a chiare lettere. E dire che i roboanti acquisti di Ibrahimovic e Pogba hanno sì reso immediatamente competitivi i Red Devils; ma erano altresì potenzialmente portatori sani del virus della gelosia, e quando la gelosia si insinua all’interno di una squadra, questa si scioglie in tanti individui: si è perso in partenza. A meno che, appunto, non si possa contare su un capitano come Rooney, che fa della fascia un moltiplicatore, non un fardello. E’ lui, in campo, a cementare il gruppo e a far coesistere le tessere pregiate del mosaico sempre un po’ inclini al successo personale.
La posizione. Schierato formalmente dietro Ibra, Rooney in realtà ama stare lì dove c’è bisogno, cioè in tutte le zone del campo. Cerca lo svedese a ripetizione, così come non disdegna ripiegamenti sulla linea mediana del campo per favorire le incursioni di Pogba. Ha parole di incitamento e assist per tutti, ma, i suoi, non sono assist finalizzati alla riconoscenza: sono delle partecipazioni. Si gioca tutti insieme. E pazienza se la ribalta mediatica è riservata a Ibra, Pogba, e al giovane Rashford: si divertano pure, al resto pensa Wayne. L’atteggiamento è lo stesso anche quando gioca in nazionale. Eppure anche qui avrebbe di che incupirsi. Per la prima partita di qualificazione ai mondiali del 2018 contro la Slovacchia, infatti, il nuovo ct inglese Allarcyde ha inserito Rooney addirittura nella lista dei centrocampisti, lui che è il miglior marcatore della storia della nazionale (53 reti in 115 presenze)! E il numero 10, pur schierato da mezzala, ha risposto sul campo esibendo la solita prestazione di sacrificio; tutte le azioni degli inglesi sono partite dai suoi piedi, anche l’azione decisiva che al 95′ ha portato al gol-vittoria di Lallana. Insomma, l’ennesimo impegno onorato.
L’ONERE. Sul braccio sinistro di Messi, invece, l’onore gioca perennemente in trasferta. Ha perso talmente tante volte contro l’onere, che a un certo punto, nel giugno scorso, dopo la sconfitta nella finale di Copa America contro il Cile, il miglior giocatore del mondo ha deciso di abbandonare la nazionale. Dietro questa rinuncia c’era l’impossibilità psico-fisica di gestire quel tremendo fardello che è la fascia di capitano della nazionale argentina. Sembra quasi che tutto l’onore possibile e immaginabile sia stato prosciugato da Maradona e che per ogni suo successore non restino che oneri. Nessuno ha creduto che fosse una decisione definitiva, ovviamente; però lo sfogo del momento era reale, assolutamente umano. Aveva bisogno di staccare un po’ la spina, Leo. La responsabilità l’aveva soffocato. Aveva bisogno di prendere un po’ d’aria, di ossigenarsi. In tutti i sensi.
Il ritorno. Ed eccolo, due mesi dopo, ossigenato, pronto ad affrontare nuove sfide, a cominciare proprio dalla gestione di quella pesantissima fascia. Prima di ritornare in nazionale, però, ha potuto svolgere le prove generali di leadership nel Barcellona, suo habitat naturale: l’infortunio di Iniesta ha comportato l’assegnazione della fascia di capitano proprio a Messi. Nelle prime due giornate di Liga (vinte dal Barça) in effetti si è visto un Messi diverso. Più propenso all’assist vero che non a quello autoreferenziale: se si afferma che ha giocato più per la squadra non si è molto distanti dalla verità. Gli stessi progressi si sono visti anche nella sfida di qualificazione ai mondiali contro l’Uruguay primo nel girone. Non solo perché ha deciso egli stesso il match con un tiro (deviato) dal limite (1-0), ma soprattutto per come ha ‘gestito’ l’espulsione ingenua e insieme fiscale del giovane Dybala, all’esordio dal primo minuto con la nazionale. Leo ha deresponsabilizzato Paulo: attraverso i suoi dribbling mai fini a se stessi ha, di fatto, ristabilito la parità numerica, tanto da concedersi, al minuto 80, un pressing alto sul portiere avversario. Forse è per questo che dieci minuti dopo due ragazzini hanno invaso il terreno di gioco per andare ad abbracciare il loro beniamino, che certo non ha la personalità di Rooney né, tantomeno, sarà mai come Maradona; ma che con questo approccio potrà sicuramente aiutare l’onore a duellare con l’onere. Magari portandolo ai rigori.
Luigi Fattore
This post was last modified on 29 Settembre 2016
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