A dire il vero non ci sarebbe stato neppure il bisogno della lotteria dei rigori. Che il Brasile avesse la medaglia d’oro già attorno al collo, lo si poteva intuire da certe comode avvisaglie prima delle conclusioni decisive dagli undici metri. Dal cerchio umano motivazionale colorato di giallo e verde, quasi per ricreare la bandiera brasiliana, dalle urla di incitamento di Neymar e compagni, dallo sfogo liberatorio di ogni brasiliano dopo aver visto il pallone insaccarsi in rete. Ce l’ha fatta il Brasile, pur dovendo inseguire per due anni un’agognata rivincita. Si sa, la vendetta – sportiva – è un piatto che va servito freddo. Non sarà un 7-1 di proporzioni bibliche, ma è un modo elegante e raffinato per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Specialmente per quel Neymar Junior che da buon capitano è stato nominato dalla stampa carioca e paulista capro espiatorio. Erano bastati due pareggi contro Sudafrica e Iran per far riemergere tutti gli spettri di quella casa infestata che è il Brasile. Due fallimenti consecutivi, in fondo, non si dimenticano: il Mineirazo e l’au revoir ai gironi della Coppa America sono ferite ancora non cicatrizzate.
Ora, però, il Maracanà non è più un terreno maledetto di conquista, quello dove la Germania nel 2014 sollevò al cielo la Coppa del Mondo. Stavolta i giovani under 23 tedeschi sono costretti a capitolare dopo aver disputato un intero torneo con fierezza e compattezza. Siamo sicuri: questi ragazzi faranno strada. Farà strada Meyer, il capitano, che apre un piattone per ammutolire il Maracanà a inizio ripresa, farà strada il capocannoniere Gnabry, farà strada Timo Werner. Farà strada, certamente, questa generazione d’oro in cui l’intero Brasile riponeva speranze d’oro: Gabigol, Luan, Gabriel Jesus, talenti supervalutati da questa polveriera che è il mercato, ma comunque genuini, brasiliani che ballano il calcio a ritmo samba, pronti ad essere svezzati nella dimensione europea. A Jesus, presto o tardi, toccherà condurre l’attacco del Manchester City a caccia di trofei. Presentarsi alla corte di Pep Guardiola con un oro olimpico è un gran bel biglietto da visita.
La copertina, però, è tutta meritatamente sua: di quel ragazzo che con il numero 10 e la fascia da capitano resta forse l’unico baluardo dell’espressione brasiliana del calcio, quel modo di giocare ritmato, danzato, artistico e meravigliosamente bello da vedere (meravigliosa la punizione che apre le danze contro la Germania). Quello dell’estetismo prima ancora che del materialismo: certo, nel giusto mezzo risiede la virtù. Allora il segreto è non perdersi in un bicchier d’acqua negli appuntamenti decisivi, unire lo spettacolo quasi teatrale all’utilitarismo. I vari Gabriel (Barbosa e Jesus) e Luan avranno il tempo per imparare, magari durante quelle esperienze europee che con ogni probabilità affronteranno nella loro rosea carriera. Già, perché per ora il blocco di Rio 2016 parla ancora la lingua (o i vari idiomi) di casa: Weverton, Zeca, Rodrigo Caio, Douglas Santos e Thiago Maia calcano ancora i campi del Brasileirao, arricchendo la fornace di talenti in erba che è il campionato carioca.
La copertina, dicevamo, è tutta loro: di Neymar ma anche e soprattutto di Weverton. 28 anni e una convocazione a sorpresa da fuoriquota dopo l’infortunio del 37enne Fernando Prass. L’estremo difensore dell’Atletico Paranaense ricorderà la serata del Maracanà a lungo. Intuisce e sfiora alcuni palloni che s’insaccano beffardamente alle sue spalle, batte i pugni sul prato del Maracanà in segno di disperazione, ma non di rassegnazione. Perché la gloria – al fotofinish – arriva. Arriva quando Petersen, il fuoriquota tedesco che vanta anche un’esperienza al Bayern Monaco, si fa ipnotizzare dal dischetto. E allora, quasi come il segno del destino, il rigore decisivo spetta al capitano: le critiche, i fischi, i paragoni, le parole che a volte fanno più male delle percosse (“Non è degno di essere il capitano di questa squadra”, sosteneva Zico dopo i primi pareggi di questo Brasile claudicante) sono soltanto un ricordo lontano e quasi sfocato. Dopo i primi due “X” sono arrivate le vittorie contro Danimarca, Colombia, Honduras. In quel momento decisivo, però, il passato non conta: il mondo crolla in un istante e in quel preciso attimo gli unici abitanti della terra sono loro, Neymar e Timo Horn. Rincorsa. Tiro. Goal. Il boato. La medaglia d’oro. Le lacrime del fuoriclasse del Barcellona e dello sconosciuto ct Rogerio Micale sono forse le immagini più belle di queste Olimpiadi, quelle che ne racchiudono il senso più profondo: lo sport è sacrificio, sforzo, ricompensa, amicizia, gioia, dolore. E’ un turbinio di emozioni che solcano l’animo nel profondo. E’ – soprattutto – una rivincita attesa due interi anni. Nella bandiera del Brasile c’è il verde, sì, ma c’è soprattutto tanto oro.
Vittorio Perrone (@pervi97)
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