“Io sono un campione, questo lo so. È solo questione di punti di vista”
Sono passati meno di due mesi: il ventisette giugno c’era spazio solo per le fragilità e la solitudine, tanta, del numero dieci, per te, che ti chiami Leo Messi. Quello per antonomasia, per intenderci, quello che occuperà gli annali del futbol per il prossimo secolo. Uscivi sconfitto, ancora una volta, all’ennesimo appuntamento con la storia e decidevi di fare non uno, ma cento passi indietro. Vincente, dominante, straripante, straordinario, forse troppo per l’umano, col tuo club, quello che ti ha reso storia. Forte, non straordinario appunto, con l’altra maglia, quella che pesa di più, quella della Seleccion, l’unica che può farti uscire dalla storia e consegnarti all’immortalità. Il tuo Paese, quello che ti ha dato oneri ed onori, responsabilità e pressioni. Già, quelle pressioni che non hai retto, che forse non hai saputo mai gestire e a cui, probabilmente, non eri nemmeno abituato.
Hai deciso di tornare perché tu, Leo, in cuor tuo hai sempre saputo che non doveva, non poteva finire così. Non per te. Uscire con niente in mano, essere ricordato come un perdente di lusso: avrebbe fatto più male di un Mondiale e due Copa America, decisamente. Non ti avrebbe reso giustizia, questo è poco ma sicuro e, soprattutto, saresti rimasto un fuoriclasse, ma incompiuto. E Diego sempre lì, in quella sua nicchia creata dopo Messico ’86 , solo, senza nessuno al suo fianco. Ed hai deciso di ripensarci, forse anche per questo. Perché per essere immortale devi paragonarti con chi già lo è: il calcio, lui, ieri. Tu, oggi, forse, non ancora del tutto: è una certezza, per te. E ti brucia, non neghiamolo. Dopo la delusione, dopo le fragilità, è subentrata la voglia di rivalsa; sono venuti fuori i coglioni, quelli servono, sì, servono. È tornata la fame, la voglia di dimostrare che anche con l’albiceleste puoi essere te: genio, fantasia, classe, Dio.
E hai deciso di tornare perché hai pianto, tanto, troppo. Hai sofferto, in egual maniera. Ti sei dannato, giorno e notte, pensando e ripensando. Allo specchio non ti sei riconosciuto: sei abituato a vincere, sempre. Quella volta, quella notte, avevi perso sul campo, lo stavi facendo anche fuori. Affogando, nei tuoi pensieri, nei meandri della tua mente, delusa, abbattuta, devastata. Sembravi non volerti rialzare e poi hai smentito tutti perché lo sai che puoi ancora dire la tua, importi, scegliere il tuo destino. Dopotutto l’artefice sei tu: dieci dietro le spalle, fascia da capitano, un Paese dietro che dipende da te.
Ed hai deciso di tornare perché il calcio argentino è in crisi, ha bisogno di uscire dal tunnel ed allora ti sei riscoperto leader, vera guida, faro nella notte, luce, unica salvezza: dopotutto il calcio sei tu. Ti sei tolto l’abito catalano, hai indossato quello argentino, per la prima volta forse, totalmente e senza timori, remore, pensieri e preoccupazioni: dì la verità, non lo avevi mai fatto prima. La tua grandezza si è riscoperta straordinaria, nella sua semplicità.
Ed infine, Leo, hai deciso di tornare perché la storia, diciamocelo, ti sta stretta. Perché vuoi arrivare più lontano, sempre, all’infinito. La tua maglia blaugrana, la tua fama catalana, cominciano ad essere etichette, non da cestinare sia chiaro, ma da aggiungere ad altre, ancora più pesanti. E perché nel 2020, simbolicamente, saranno esattamente passati venti anni, due decadi, dal tuo spontaneo esilio, dalla tua partenza da Rosario, destinazione Europa, il continente che hai già conquistato. Ti manca il mondo. E sai di avere ancora un po’ di tempo, davanti a te, per tornare in Argentina ed essere più che Leo Messi. Ora o mai più: puoi, devi conquistare quello che ti manca. L’immortalità.
GENNARO DONNARUMMA
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