È stata principalmente una guerra di nervi. Esser lì, Saint-Denis, un popolo che intona la Marsigliese con la forza e l’eleganza di chi ruggisce nonostante le ferite siano ancora ben visibili. È stato come se quella partita avesse già un epilogo ancor prima di battere quel beffardo calcio d’inizio: doveva andar così, in fondo. Era destino che la Francia vincesse: lo meritavano, e il campo c’entrava poco. Dovevano vincerlo loro, i padroni di casa, per tutto l’impegno, la voglia, il coraggio. E la fatica, sì: ch’è costata un Europeo.
Solo che le lacrime di dodici anni fa sono mutate, non trasferite. Quel ragazzino dalle enormi promesse ora è un uomo che sbraita, si sbraccia, vorrebbe essere in campo eppure ha un ginocchio malandato. Colpa di Payet, involontariamente parte di una storia più grande. Se fosse finita diversamente, probabilmente sarebbe stata prevalentemente la sua. Colpa delle stelle, poi. E del destino, e della vita. Dà, toglie, forse restituisce. Di sicuro ti conserva in un angolo i momenti speciali, lo fa per quelle volte in cui meno te l’aspetti. Per Cristiano Ronaldo è stata una festa a sorpresa: non aveva invitato nessuno, era arrivato a fatica agli Europei, tra infortuni e solite frasi fatte sui suoi compagni di squadra. Dicevano che sarebbe stato lui più altri dieci. Dicevano.
Anima totale, leader in campo e fuori: quella fascia l’ha lanciata via per un istante, preso dalla rabbia, da una delusione che gli doleva più del ginocchio sinistro. Poi l’ha ripescata, dandola a Nani a mo’ di testimone: ora sarebbe stato compito suo e di chi gli girava attorno. Bisognava terminare quanto iniziato. Un cammino di difficoltà, seguito dalla speranza e dal miglior percorso possibile: quello dei zero drammi, mescolato al lavoro e ad una caratura mentale da far invidia al mondo intero. Ci sono voluti gli attimi, più delle giocate. Gli sguardi, più delle cavalcate. C’è voluto lo spirito guerriero di chi sa che ha sempre avuto poco da perdere, un’enormità da guadagnare.
E alla fine, quell’enormità è arrivata. Sul più bello, davanti ad un popolo riunitosi per far festa. Ed è arrivata con un gol di pura magia di chi per vivere sa fare solo a sportellate. È il calcio, se volete. Ancora una volta animato dalla legge più giusta di tutte: quel karma che tolse il titolo più importante ai lusitani, nel loro stadio, nel loro mondo. Nel loro habitat, creato appositamente per trionfare. Ora certe immagini non possono non ritornare: faranno parte della vita di ognuno, come un macigno oppure un avvenimento d ricordare con piacere. Faranno parte della nostra esistenza, e soprattutto in quella di Cristiano. Caduto, rialzatosi, ricaduto. Poi ritornato: ché c’era bisogno di lui, della sua personalità, della sua fame. Infine, giustamente portato in trionfo. Non per quanto ha fatto, ma per quel che ha dato. Non per i gol o le giocate, ma per le parole.
È l’ennesima lezione che il calcio sa offrire alla vita, a quella di tutti. Non c’è storia scritta in partenza, viaggio con destinazione sicura. Non c’è vittoria senza sudore, sacrificio e fortuna. Non c’è la Francia stasera: l’avrebbe meritata tutta la vita soltanto per come ha gestito un mese di fuoco, fiamme e miracoli sportivi. Però il campo ha parlato: dice Portogallo. Ed ha restituito un titolo scippato da un’altra storia immensa. Va così, con l’emozioni: vanno soltanto prese col proprio carico di vita. Passerà per i francesi, prima o poi. Resterà invece a vita per quei dieci ed il loro capitano, l’uomo del destino, l’uomo del karma.
Cristiano Corbo
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