Ultimo aggiornamento 27 Giugno 2016 15:44 di
Undici metri possono cambiare la storia. Un tiro, alto, fa calare il sipario. E ti ritrovi solo, ancora una volta, con la testa china e le lacrime agli occhi: è finita come non doveva finire, con una sconfitta, l’ennesima in finale, la terza consecutiva. Una maledizione, non c’è altro modo per definire tutto ciò. Non destino, non volontà di un essere più grande di tutto e tutti. Il sogno, accarezzato più e più volte, è svanito proprio quando stavi per stringerlo: lo sentivi, finalmente era tuo, non poteva togliertelo nessuno, non ora e non in certe condizioni. Ed invece pensi a quanto può essere cattivo il calcio, proprio lui, che ti ha dato tutto. Pensi a quanto siano duri certi colpi, a quanto facciano male certi schiaffi. Non agli altri, s’intende, ma a te, te che ti chiami Leo Messi e sei, all’unanimità, ritenuto il più forte attualmente in attività. Ma il mondo domani andrà avanti lo stesso, prima o poi si dimenticheranno tutti, o quasi, di questa sconfitta: non tu. Molli ma ti prendi una notte per pensarci, perché ti fa male il cuore, perché ancora una volta pensi di aver deluso te stesso, la tua Argentina, tutta, che ti aspetta ormai da tanto, troppo tempo. Torni a vedere i fantasmi, le ombre ti perseguitano: i più grandi con quella maglia hanno vinto, tu no.
Ti fermi e rifletti, passi una notte insonne, sei solo, nella solitudine del numero dieci, quello dei più grandi, la tua seconda pelle. Non c’è qualcuno che possa capirti, non c’è qualcuno che lo voglia fare e tu abbassi la testa e ti allontani, nel buio, con la luce che progressivamente viene meno e la tua ombra che scompare nelle tenebre. Guardi e riguardi il soffitto della tua stanza, ti danni ancor di più: la tua straordinaria grandezza è diventata mestamente piccola, effimera. Vuoi scomparire, lo vuoi Leo, perché ti senti incredibilmente insignificante, una mosca rispetto al tuo genio, alla tua classe, al tuo talento cristallino. E nella solitudine del tuo numero dieci pensi che forse tecnicamente sei il top, fisicamente un mostro, hai i colpi, un sinistro benedetto da Dio ma la testa non ti regge quanto dovrebbe: e piangi, ancora di più, perché sai che è la mente, molte volte, a fare la differenza. Tu hai tutto, ma non quello, non con quella maglia. La sconfitta ti brucia due, tre volte di più. Non c’entrano i paragoni con i grandi, non ha un peso specifico l’eterno e intramontabile confronto con Diego Maradona: a certe cose, in fondo, nemmeno ci credi. Certi paragoni non esistono, tempi diversi, modi diversi di giocare ed intendere il calcio. Però tu Diego l’hai superato sul campo, ma non nella storia. Lui ha un Mondiale, vinto da solo, ira funesta di un Dio argentino che gridava vendetta. Poi pensi a Gabriel Omar Batistuta: hai superato anche lui, uno dei più amati, sul campo. Ma non nella storia, ancora una volta: almeno ha una Copa America dalla sua, tu l’hai persa due volte. Con il Sol de Mayo alle spalle loro facevano la differenza, tu no. E questa è un’onta troppo grossa per te.
E poi ci sono le fragilità del numero dieci, quelle antipatiche etichette che non mancano mai: insignificante con l’Albiceleste, nel Barcellona vai bene e danno i meriti ai tuoi compagni, geniali, ad un gruppo eccelso, ad una squadra costruita minuziosamente in decenni e decenni di lavoro, investimenti, pianificazioni. E poi c’è il peso di un Paese intero: per milioni di argentini sei il “Diez”, il predestinato, l’uomo capace dell’impossibile. Li hai delusi, senti la responsabilità più del dovuto, sei ancora solo, è quasi mattina, ma le tue fragilità stanno avendo il sopravvento su di te: tanto grande eppure così misero di fronte all’immenso. E forse ti rendi conto di essere il meno argentino di tutti: sostanzialmente cresciuto in Europa, la nazione ha sentito poco il tuo peso e quando ha chiesto di trascinarla, puntualmente, non ci sei riuscito. La storia del calcio è piena di certi esempi, campioni grandi nei rispettivi club, nulli con la nazionale. Pensi anche al rivale di sempre, quel Cristiano Ronaldo che prova da anni ad intralciare il tuo cammino: e se ci riuscisse, stavolta? Incubo, ancor di più. Tenti di riposare, non ci riesci: troppo forte il pensiero di quel tiro calciato alto, quella palla che si perde nel vuoto e le gambe che tremano, senza sosta.
Rifletti sulle tue parole. Sì, hai detto “lascio, perché evidentemente non so vincere con questa maglia, non fa per me, ci ho provato tre volte” – proprio così. E ricordi la tua espressione, quella che sa di sconfitta e tu non sei abituato a perdere. Deluderai milioni di tifosi, sarai etichettato come perdente, come codardo, come capitano che abbandona la nave mentre affonda, al posto di restare per scongiurare il naufragio e riemergere più forte. Ma azzardare, spesso, è un rischio: ti resta una sola cartuccia nel fucile, si chiama Russia 2018 e ti chiedi se ne valga o no la pena: ci ripenserai sicuramente, nelle prossime ore, settimane, mesi, forse sì, forse no. Forse tornerai, forse no. Farai come l’Araba Fenice, risorgerai, o resterai al tappeto. Ce lo dirà il tempo, mio caro Leo. Sai solo che è oramai mattina e dalla brughiera dell’esistenza sono sparite anche le ombre: sei rimasto tu, Leo, solo, numero dieci dei dieci, a chiederti chi o cosa sei. Nel nulla più assoluto.