Ultimo aggiornamento 29 Settembre 2016 9:37 di
Nel 1982 il presidente argentino Leopoldo Galtieri, nel tentativo di distrarre l’attenzione pubblica dalla devastante crisi economica causata dalle sue scellerate scelte politiche, puntò sull’orgoglio del popolo argentino reclamando la sovranità delle isole Falkland/Malvinas, un arcipelago dell’Atlantico meridionale che, nonostante sia più vicino (volendo utilizzare un eufemismo) all’Argentina, era ed è soggetto alla signoria del Regno Unito.
Quella di invadere le isole, però, si rivelò una pessima idea. Perché evidentemente il Regno Unito non ci stava a subire quell’affronto, e non si fece sfuggire l’occasione di dimostrare tutta la sua potenza, forse anche eccedendo nel difendersi. Per Galtieri, ma soprattutto per il popolo argentino, quella assurda guerra fu un disastro. Alla dilagante crisi economica che già affossava il paese sudamericano, infatti, si aggiunse una pesante sconfitta militare che vide la caduta di circa seicentocinquanta uomini, oltre che un migliaio di feriti e circa diecimila prigionieri.
Il 22 giugno 1986, esattamente quattro anni dopo, Argentina e Inghilterra si ritrovarono l’una di fronte all’altra in Messico per il quarto di finale della Coppa del Mondo di calcio. E’ vero, di regola il calcio non va mischiato con la politica, ma è altrettanto vero che lo sport è fatto di uomini, e di regola gli uomini hanno un cuore. Ecco perché i calciatori argentini, che in quel momento rappresentavano il popolo, riversarono in quella partita tutto il loro orgoglio ferito. E per farlo si affidarono al loro capitano, alla vera espressione del sentimento nazionale, altro che il guerrafondaio Galtieri. Si affidarono a Diego Armando Maradona.
Un Maradona che si presentò a quella partita (ma in generale ai mondiali in Messico) in una condizione indefinibile. Ogni aggettivo sembra inappropriato. Anche se li utilizzassimo tutti proveremmo una certa insoddisfazione nel definirne lo stato di forma. Aveva raggiunto un tale equilibrio psico-fisico-motivazionale paragonabile al concetto kantiano di Sommo Bene, ossia la commistione tra felicità e virtù. Lui che la felicità la conosceva bene, e precisamente da quando si era accorto (molto presto, per la verità) di avere al posto del piede sinistro un inesauribile giacimento di talento che g
li garantiva un rapporto privilegiato, per così dire, con il pallone. Ma qualcuno sosteneva che quel privilegio fosse poca cosa senza una vittoria importante, senza La vittoria. E allora Maradona ci diede dentro e aggiunse alla felicità un bel po’ di virtù. Si allenò come non mai e arrivò in Messico magro, tonico, scattante. Con le gambe più forti ed elastiche del solito, pronte a sostenere e a esaltare il tesoro ubicato nel piede sinistro. Voleva vincere il mondiale, voleva prendersi il pallone. Quel pallone la cui paternità era attribuita agli inglesi. Sì, ancora loro. Non gli bastavano le Malvinas, avevano pure il calcio. Questa cosa Diego proprio non la poteva tollerare, ecco perché durante l’esecuzione degli inni nazionali, lanciò degli sguardi di sfida verso i britannici come a dire: “per le isole non posso fare niente, ma oggi il pallone ve lo tolgo”. E così fu.
Il ‘passaggio di proprietà’ avvenne in quattro minuti, dal 51’ al 55’. Data la ristrettezza dei tempi che caratterizza una partita di calcio, non era possibile per Diego ottenere un ‘titolo esecutivo’, per questo motivo fu costretto a sottrarre il pallone agli inglesi con l’astuzia. E precisamente con la mano de Dios. Al minuto 51, infatti, Maradona viene servito sulla trequarti di campo. Sembra tutto tranquillo, ma all’improvviso imprime un ritmo forsennato al gioco partendo con un’azione personale, toccando innumerevoli volte la palla con il sinistro, una volta anche col destro (di tanto in tanto capitava), e poi ancora una volta con il sinistro, servendo Valdano. Ma dopo il passaggio a Jorge, il genio argentino si incammina verso la porta difesa da Shilton perché si aspetta sia l’errore del suo compagno, sia l’errore del difensore inglese Steve Hodge. Anticipare un errore è una prerogativa dei fuoriclasse ordinari, anticiparne due o più è un’esclusiva di Maradona. Ecco perché va a concludere egli stesso la triangolazione davanti al portiere inglese, che è alto circa 20 cm più di lui. Ma, come detto, Diego si era allenato proprio bene, perciò si produsse in una elegante piroetta che dovette soltanto ‘integrare’ allungando il pugno sinistro, con cui anticipò Shilton, marcò l’1-0 e soprattutto rubò il pallone agli inglesi.
Il pallone, però, nonostante non fosse del tutto insensibile alle avances di Maradona, si sentiva ancora inglese. E il fatto di essere stato rubato con la mano lo indisponeva non poco nei confronti del numero dieci argentino. Ma di lì a poco, anzi, a pochissimo avrebbe cambiato idea. Al minuto 55 iniziò, infatti, la più grande dichiarazione d’amore che un calciatore avesse mai fatto alla sfera di cuoio. Ricevuta la palla a metà campo da Henrique, Maradona si carica idealmente sulle spalle e sulle gambe forti tutto il popolo argentino, in particolare i familiari delle vittime della guerra di quattro anni prima e li porta tutti con sé in quello che si può definire come un vero e proprio viaggio nella bellezza. Li coinvolge tutti nel corteggiamento di quella che sarebbe diventata la “pelota”, non più “ball”. Perché i dodici tocchi con cui Diego realizza il gol più bello di sempre sono una sorta di progressione amorosa fatta di carezze e di baci, che non possono lasciare indifferente l’ambìta sfera di cuoio, che infatti non impiega troppo tempo a rinnegare il suo passato e ad abbandonarsi definitivamente a quel magico sinistro. Ad ogni dribbling sembrava dire a Diego: “tienimi con te, non voglio più stare tra queste maglie bianche, tienimi con te!” Stavolta non ci fu nessun eccesso di difesa da parte degli inglesi. Anzi, non ci fu proprio nessun accenno di reazione, perché i centrocampisti e i difensori caddero uno dopo l’altro a colpi di beltà, così come cadde Shilton, che quattro minuti dopo aver subìto l’affronto del gol di mano, fu costretto ad assistere, sedendosi in posizione privilegiata, all’ultimo atto del passaggio di proprietà. E ascoltò, suo malgrado, anche l’orgasmo della pelota, che non appena venne scaraventata in rete gridò a Maradona: “sono tua per sempre!”
Fu una giocata memorabile che inondò di una bellezza nuova il mondo del calcio. Sono passati esattamente trent’anni da quella svolta epocale, e sono trent’anni che questo sport viene associato innanzitutto a Maradona, e così sarà per sempre. E se pensate che la pelota non valga le isole Malvinas, provate a chiedere a un bambino cosa sceglierebbe.
Luigi Fattore