Ultimo aggiornamento 17 Giugno 2016 21:52 di
Un rettangolo verde, la cornice dei Mondiali di calcio e centoventi minuti. C’è chi la storia la può solo ammirare, chi la racconta. C’è chi, invece la scrive di proprio pugno. La vive creando uno spartiacque tra il prima e il dopo. Italia-Germania, Stadio Azteca di Città del Messico, 17 giugno 1970, spalti gremiti in ogni ordine di posto ed il mondo del calcio che da allora non sarebbe stato più lo stesso. Un dramma inciso in due ore di battaglia per un pubblico estasiato, la semifinale capace di rubare occhio e ricordi persino all’atto finale. Epilogo, quello, che avrebbe reso meno giustizia al gruppo di Valcareggi, giunto stremato all’appuntamento. In ginocchio al cospetto della strabordanza tecnica e fisica di un Brasile indubbiamente superiore.
Calcio d’altri tempi, ancora a metà tra il bianco e nero e la rivoluzione a colori. Due colossi del calcio mondiale a confronto, tre titoli iridati in campo, vice campioni del mondo in carica e campioni d’Europa pronti a fronteggiarsi per strappare il pass per l’agognata finale. Gli azzurri di Rombo di tuono e Bonimba, della staffetta tra Mazzola e Rivera ed un dibattito che spaccò in due lo stivale. Dall’altro lato la Germania Ovest del Kaiser Franz Beckenbauer e di Gerd Müller, 569 reti con la maglia del Bayern Monaco. Il più spietato, famelico, bomber che il calcio abbia mai conosciuto. Nessuno come il cecchino di Nördlingen negli ultimi venti metri, e anche quella gara l’avrebbe dimostrato.
In Italia è ormai tarda serata, al triplice fischio del direttore di gara Yamasaki saranno circa le due di notte, ma nessuno, fino alla fine, riuscirà a staccare gli occhi dallo schermo. C’è il calcio, tra emozioni, ansia e confusione. Timore e gioia irrefrenabile, tutto in un’unica gara, in una maratona epica. Novanta minuti di pura tensione, la saetta mancina di Roberto Boninsegna che dopo 8′ di gioco fulmina Maier e infiamma le danze, dà inizio alla battaglia. Tenzone, cruda e semplice, senza badare al risparmio. Chiedere a Beckenbauer e quell’immagine che ha fatto storia: duro scontro di gioco, spalla lussata, ma in campo fino alla fine braccio al collo, il Kaiser poteva ciò che non è possibile nemmeno immaginare, unico. Italia corta e pronta a ripartire, ma maggiormente propensa a contenere le folate teutoniche. Difesa serrata, Albertosi sugli scudi e la vittoria di misura ad un passo, tenendo botta fino alla fine, persino oltre il novantesimo. Ma mai concedere nulla ai tedeschi, è la regola, non rispettata quando a tempo ormai ampiamente scaduto il rossonero Schnellinger – zero reti in 9 stagioni al Milan, solo 3 in 11 stagioni in Italia – lasciato colpevolmente solo dalla retroguardia azzurra batte Albertosi e segna il primo, indimenticabile, gol con la sua Nazionale.
Tutto da rifare, tempi supplementari da affrontare con gli uomini di Schon rinvigoriti da un’insperata rimonta. Trenta minuti che diventano, appunto, storia: l’errore di Domenghini e Albertosi con Muller, proprio lui, infido nell’insinuarsi e accarezzare, non di più, la sfera dirigendola docile e beffarda in rete. Germania Ovest in vantaggio, ma non può finire così. Sei minuti per un uno/due in grado di schiantare chiunque, prima Burgnich, approfittando di una topica di Vogts e compagni, e poi il mancino telecomandato di Gigi Riva. Tre a due, Rombo di tuono mani ai fianchi, stremato. Tutti cadrebbero, dicevamo, ma non i tedeschi. Corner guadagnato dopo l’ennesimo, grande intervento di Albertosi. Passaggio corto, spiovente di Libuda per lo stacco perentorio di capitan Seeler; più in alto di tutti, palla in area per il guizzo, l’ennesimo, il decimo a Messico ’70, del numero 13, Gerd Müller. Colpo di testa beffardo a pochi metri dalla linea di porta, anche Rivera, sul palo, preso in controtempo. Germania che non molla, vero, ma gli azzurri non sono da meno. Non possono, non dopo una gara simile. E allora palla al centro, per un monologo che muta in leggenda. De Sisti per Rivera, ancora De Sisti, scarico per Facchetti, destro in profondità a cercare le spunto di Boninsegna. Bonimba prende palla e fugge via, rapido, come se quei 111 minuti sulle gambe non l’avessero neanche sfiorato, c’è solo la porta di Maier, c’è solo una favola a cui regalare un doveroso lieto fine. Schulz non tiene il passo, Boninsegna è ormai in area, con la coda dell’occhio scorge Rivera, eremita tra le maglie tedesche, il mancino è perfetto, così come il destro del Golden Boy rossonero. Maier a destra, palla a sinistra, è l’apoteosi. Per i tedeschi solo gli ultimi assalti, ma ormai è tutto scritto, finito. Si era fatta la storia del calcio, all’Azteca era andata in scena la partita del secolo: Italia-Germania 4-3.
Edoardo Brancaccio