Classe e prepotenza. Un delirio, l’ultimo passo verso l’eternità. Perché sì, Nole Djokovic la storia l’ha fatta sua ormai da tempo, ma il trionfo su Andy Murray tra le ovazioni del Philippe Chartier catapulta con decisione il classe ’87 di Belgrado tra i più grandi di sempre, senza che più nessuno – anche fra i più critici – possa trovare il minimo appiglio. Un corridoio, di quelli che in campo intravede con fare famelico, verso l’Olimpo. Re Sole del Roland Garros 2016, ultimo tassello per il Career Grand Slam, almeno un trionfo in ognuno dei quattro più grandi tornei del circus. Un vanto per pochi, solo in sette prima di lui, solo Roger Federer e Rafa Nadal – i rivali di sempre – tra i suoi contemporanei. Da oggi, lassù, si sta un po’ più stretti, ma del resto la compagnia è di quelle che fanno tremare gambe e polsi.
Il capolavoro che vale una carriera confezionato in quattro set dove un dominio lungo tre set, dopo l’inciampo iniziale, ha comunque minato le aspettative del sempre esigente pubblico parigino. A differenza della mattanza in tre set agli Australian Open, almeno, l’onore delle armi Murray lo agguanta in un finale pregno d’orgoglio. E, soprattutto, in un primo set che ha visto il serbo contratto, difficilmente all’altezza del suo ritmo. Molto Andy, poco Nole. Tonico, reattivo, persino perfido nel cogliere ogni minima occasione il primo. Lucidità prossima allo zero, in difficoltà dal punto di vista fisico il secondo. Ed il risultato si materializza in un 6-3 con pochi patemi, che brilla di luce propria nei quattro game di fila con cui il vincitore di Wimbledon 2013 schianta le velleità del serbo, lasciando più di un flebile spiraglio all’impresa. Il nervosismo che sembra assalire il rivale nel finale è però illusione, pura e semplice, la forza di Djokovic sta tutto in un approccio mentale impermeabile, sempre, alle contingenze. Un unico obiettivo, fisso, vincere. Da perseguire, non c’è ostacolo, nessun limite. In barba alla statistica, Murray mai sconfitto sulla terra rossa parigina dopo aver vinto il primo set, un ulteriore tabù da schiantare. Break immediato, ipoteca istantanea su un secondo set dove il serbo rinasce e poggia le basi per il Nirvana: 6-1, Murray è una comparsa. Ma è nel terzo set che i dubbi cominciano a sfumare, scambio dopo scambio, in un crogiolo di giocate da antologia. Quando il polso di Djokovic comincia ad incantare la partita diventa un direttissimo, zero fermate. La fotografia, splendida, il recupero al fulmicotone sul secondo break che chiude il set: una saetta sulla palla corta dello scozzese, leggiadra, una piuma, la carezza sotto rete che cerca l’incrocio e si stampa sulla linea. Murray impotente, meraviglia negli occhi del pubblico. Magia, tennis, il 6-2 un’elementare conseguenza. L’ultimo set con un pizzico di thriller, ovvio, scontato, l’ultimo passo resta sempre quello più lungo. Dall’altro lato, però, la parabola di Murray è una ripida discesa. Prima di fisico, poi di testa. La grinta, quella, resta inappuntabile, uno strenuo tantativo fino a quel rovescio che mesto si è depositato in rete sentenziando la fine dell’incontro dopo poco più di 3 ore di disfida, per un finale in quattro set: 3-6 6-1 6-2 6-4.
Da chimera a placida preda. Il Roland Garros inseguito in un percorso tortuoso non è più un sogno, c’è da far spazio alla Coppa dei Moschettieri in una bacheca ormai sconfinata. Quattro Slam di fila, il primo a riuscirci dai tempi di Lever, ora nel mirino l’ennesima impresa, molto più di un vezzo. Ma l’ingiocabile alieno, il muro di gomma chiamato a demolire ogni record è pronto anche a questo. Perché no, Golden Slam, tutto in un anno. Nel circuito maschile un’impresa simile manca dal 1969, un’altra era. L’ultima a riuscirci fu Steffi Graf, guardando al panorama femminile. Era il 1988, quasi trent’anni orsono e Djokovic, allora, poco più di un neonato. Ma il gusto è tutto lì, oltre ogni limite. Poco più di un gioco per Novak, il nuovo Re Sole.
This post was last modified on 5 Giugno 2016
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