Basta scandirlo: Roger Federer, ed ogni sillaba sussurra leggenda. Storia dello sport, icona che trascende il semplice palmarès. Un verso di Shakespeare, una pennellata di Gaugin. Ogni colpo del Re è sempre stato uno spot per il tennis, nelle vittorie come nelle sconfitte. Classe senza eguali, così come la sua eleganza, in campo e fuori. Divinità tra i mortali. Un costante racconto da togliere il fiato, capitolo dopo capitolo, da oltre quindici anni. Arricchendo una bacheca maestosa, unica nella storia: dai 17 Slam – record assoluto e Grand Slam Carreer conquistato con l’alloro di Parigi nel 2009 – di cui 7 Championship, ai 24 Master 1000. E poi l’oro olimpico nel doppio con il connazionale Wawrinka a Pechino. Punti più elevati in una carriera costellata da 88 trionfi. Undici di questi sulla terra rossa, non propriamente il suo terreno di caccia, certo, ma stona che in un susseguirsi di imprese senza sosta a Roma, agli Internazionali d’Italia, per molti il Quinto Slam, non abbia mai inciso il proprio nome, indelebile, tra i vincitori del torneo. Quattro finali, il punto più alto, sconfitto dal carneade Mantilla, due volte dall’eterno rivale Nadal e, ultimo in ordine cronologico, Nole Djokovic l’anno scorso.
La maledizione. Un’anatema, anche quando Federer era sinonimo di trionfo, sempre, la sconfitta solo una miserevole eccezione. La maledizione del Re sulle le placide sponde del Tevere. E l’edizione 2016 non ha portato in dote un esito di certo differente. Fastidi fisici e difficoltà fino al terzo turno, parole in conferenza, alla vigilia, pesanti come il piombo: “Sarebbe fantastico vincere qui a Roma, ma non penso che capiterà. Sono realistico e non credo di vincere. Magari il prossimo anno sì. Allo stesso tempo sono contento di poter giocare il torneo quest’anno”. Impossibile trarne una diversa interpretazione, una sentenza poco dopo la vittoria sul talentuoso Alexander Zverev, sconfitto in due set: 6-3/7-5. Profeta di un destino già segnato, sulla sua strada un altro enfant terrible: Dominic Thiem, classe ’93, numero 15 nel ranking ATP. Carico al punto giusto, come l’obbligo impone ad un ventiduenne in attesa della definitiva consacrazione, Buenos Aires ed Acapulco in carniere e 32 vittorie per un 2016 da vivere sugli scudi, finalmente. Partenza ottima per lo svizzero, glissando sul mal di schiena, ma dopo il break a metà primo set – sul 3-2 – una lunga discesa fino agli 88 minuti finali. Primo set perso al tie-break, il secondo in equilibrio fino al 2-2, perso il servizio e così l’incontro, fino al definitivo 7-6/6-4 finale. Sconfitto, vero, ma con il solito carico di lucidità ed umiltà: “Oggi non è importante come ho giocato, la tattica o il risultato, ma quel che contava era poter essere sul campo a giocare un match e soprattutto il fatto che adesso sto come ieri e non peggio. Sono felice di essere tornato a giocare una partita dopo quasi 40 giorni potendo verificare quindi come mi sento in campo. Del resto, negli ultimi quattro mesi ho potuto disputare solo cinque incontri e quindi adesso posso avere la speranza di allenarmi bene nei prossimi dieci giorni e arrivare pronto al Roland Garros. Il valore di questo torneo per me era legato alle informazioni su me stesso e non sui risultati”. Occhi su Parigi, perché ogni sussulto arriccherebbe un’avventura che supera l’umana valutazione. Roma resta un obiettivo, ribadito nelle parole dello svizzero. Intanto, tra i Fori, uno scalpo, quello del fuoriclasse forse più grande di sempre, a rinvigorire il percorso di un predestinato.
Un predestinato iniziato alla “guerra”. Non ancora un passaggio di consegne, ma la strada, quella sì, ben delineata. Talento purissimo, Dominic, futuro del tennis d’Austria e non solo. Qualità nel polso maturata nel tempo, affidandosi ad un indole poliedrica difficile da ravvisare ovunque, tutt’altro. Dedito alla difesa, pura predisposizione, è riuscito – in un circus che da Nadal a Djokovic ha visto interpreti nel genere dominare con agire dispotico – a malleare il proprio gioco, grazie ad un mentore d’eccezione: coach Gunter Bresnik, da Becker a McEnroe, solo per rendere l’idea. Via l’incedere difensivo, in archivio il rovescio a due mani, spazio all’aggressività, rischiando il colpo anche a costo di scoprire il fianco. Il risultato? Un giocatore completo: gran servizio e dritto sinuoso, potenza e controllo, con qualche difetto nel volo e nel rovescio – appunto – ancora da limare. Ma tattica e gioco rappresentano solo un fattore, mai sottovalutare preparazione fisica – essenziale nel tennis moderno – e, soprattutto, mentale. E lì, quasi ingombrante, spicca un’altra figura chiave nel percorso di Thiem: Sepp Resnik. Ex atleta a 360°, ginnasta, judoka, triathlon. Preparazione sui generis, che ricorda l’antico, dal sollevamento di tronchi alle sessioni di addominali. E corsa, tanta corsa, sessioni da oltre 10 km raggiungendo un massimo di due pause. Tutto dall’autunno del 2012. Fisico ma anche mente, suggerendo letture che spaziavano dall’anatomia al buddhismo. E un’indole da permeare: “Quando vai là fuori devi essere un animale. Il tennis non è un gioco, è una guerra“. Soleva ripetergli. Ora Dominic è lì, pronto a spiccare il volo. Per rompere il dominio assoluto dei Fab Four che dura da tempo immemore, servirà anche questo.
Edoardo Brancaccio
This post was last modified on 13 Maggio 2016
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