Ultimo aggiornamento 29 Settembre 2016 9:40 di
Il calcio è una metafora della vita e, come tale, non può sfuggire alla legge della ciclicità. Ma questo aspetto non basta a giustificare l’anonimato (in termini di competitività vera) di Milano dal bello ed entusiasmante (per larghi tratti, almeno) campionato 2015/’16 e, più in generale, dalla serie A degli ultimi anni. Quando parliamo di Milan e Inter, infatti, non parliamo soltanto delle due squadre che, insieme alla Juventus, hanno fatto la storia della serie A e parte della storia del calcio europeo; parliamo anche di circa 13 milioni (complessivi) di tifosi arrabbiati, delusi, molto ben abituati e perciò tristi, che ormai sono costretti a fare i conti con una realtà secondaria, per non dire terziaria. Perché la ciclicità può essere accettata nella misura in cui ci si limiti a non vincere, e non quando non si prova nemmeno a farlo. Per ritrovare le milanesi in concreta lotta per lo scudetto, infatti, bisogna risalire, nel caso del Milan, al 2012 (c’erano Allegri, Ibrahimovic e Thiago Silva); nel caso dell’Inter, invece, al 2011, quando sulla panchina dei nerazzurri sedeva addirittura Leonardo: nel calcio il presente pesa talmente tanto che sembra davvero un’era geologica fa.
Le squadre di calcio sono dei nutritissimi gruppi di lavoro, sono ormai delle aziende, per cui è difficile, di regola, individuare un problema preciso quando le cose non vanno per il meglio, solitamente si tratta di diverse concause. Ma nel caso delle milanesi, se si individua nella confusione il male supremo, non ci si sbaglierà di molto. Confusione che tra rossoneri e nerazzurri si atteggia in modo diverso: rispettivamente a monte e a valle. Il problema del Milan è a monte, nella società, cioè Berlusconi e Galliani. E’ inutile girarci intorno. Intendiamoci, parliamo di due grandi dirigenti sportivi che hanno dato tanto al calcio e che hanno vinto tantissimo. Le loro imprese resteranno per sempre cristallizzate nella storia del calcio italiano. Ma purtroppo il tempo passa per tutti e sono diversi anni ormai che non ne azzeccano una. A guardarli viene in mente “Youth”, il film di Sorrentino, in cui i due protagonisti anziani, un regista (Mick/Harvey Keitel) e un compositore (Fred/Michael Caine), si ritrovano a fare i conti con un corpo ammaccato e naturalmente provato dallo scorrere del tempo. Ma se nel film di Sorrentino l’ ‘armatura’ dei personaggi è riuscita in qualche modo a preservare una scintilla vitale, una quota di pura giovinezza che poi, in tempi e modi diversi, verrà liberata, nella versione rossonera tale interpretazione subisce una deformazione significativa. Purtroppo in questo caso ad essere ammaccate sono anche le idee. In molti momenti sembra che si vada avanti per inerzia, senza una logica. Qualche esempio: il Milan in questo momento si ritrova sul libro paga ben quattro allenatori (Seedorf, Inzaghi, Mihajlovic e Brocchi) e continuerà a pagarli fino a giugno. Cambiare quattro allenatori in due anni è una roba da Zamparini, non da Milan, non da squadra vincente. Un altro dato significativo che conferma la confusione che regna in casa rossonera è l’indovinato acquisto di Bonaventura nella sessione estiva del calciomercato 2014. Può sembrare un paradosso, ma il giocatore meno voluto (perché preso all’ultimo giorno di mercato, quasi per sbaglio) si è rivelato il più redditizio. Anche perché le operazioni mirate hanno portato alla cessione di El Shaarawy e agli acquisti di Bertolacci (20mln) e al prestito di Balotelli. Ancora Balotelli, sì. Una squadra che vuole rifondarsi riparte da gente affamata e ambiziosa, non da dischi rotti. Così come è un disco rotto la pantomima che dovrebbe portare alla cessione del club. Se ad un certo punto i possibili acquirenti indietreggiano vuol dire che la volontà di cedere non è piena e libera e non riesce a prevalere sul desiderio di manovrare ancora il giocattolo. La sensazione è che nel Milan imperi una pigrizia mascherata da impazienza di vincere. E continuando su questa linea pigra, Berlusconi e Galliani non potranno fare altro che guardare a debita distanza la giovinezza, la gioventù, la Juventus.
Dire che i cugini stiano meglio pare un po’ azzardato. Sarebbe più corretto dire che i nerazzurri stanno meno peggio, questo sì. L’Inter, come detto, condivide con il Milan il problema della confusione, confusione che in questo caso emerge a valle, cioè nella guida tecnica, in due parole: Roberto Mancini. Alla società, infatti, non sembrano ascriversi particolari colpe. Negli occhi di Thohir e Ausilio si percepisce un certo entusiasmo, una certa vitalità finalizzata a rendere vincente l’Inter. Si intravede un minimo di progettualità, se non altro con riferimento alla incondizionata fiducia riposta nell’allenatore. Puntare in maniera convincente su un tecnico consentendogli anche di sbagliare è senz’altro indice di serietà e può essere sicuramente il primo passo verso un futuro roseo. Il punto, però, è capire se il numero di errori commessi da Mancini è fisiologico o patologico. Il Mancio in sede di mercato è stato accontentato sotto tutti i punti di vista e, fatta eccezione per Yaya Tourè, ha avuto tutti i giocatori che aveva richiesto, su tutti Kondogbia, Jovetic e Perisic. Nonostante questo, però, il campionato è quasi finito e nessuno è in grado di conoscere quale sia la formazione tipo dell’Inter. Il punto, infatti, è proprio questo. All’inizio si contavano le formazioni diverse messe in campo da Mancini, ma ad un certo punto ci si è stancati: si è perso il conto. Si veda, ad esempio, la gestione tattica di Perisic: prima di schierarlo come ala sinistra, cioè il suo ruolo, il croato è stato impiegato come trequartista e come ala destra con scarsi risultati. Per non parlare della confusione creatasi attorno alla scelta del partner d’attacco di Icardi: prima Jovetic, poi Ljaijc, poi Eder, poi Biabiany, infine Palacio. L’incertezza non risparmia nemmeno i terzini: D’ambrosio o Nagatomo, Santon o Juan Jesus, e Telles? A guardare la gestione del Mancio viene in mente il film “American Gigolò” interpretato da Richard Gere, soprattutto la scena cult dell’armadio, quando cioè il protagonista appoggia sul letto tutti i bei vestiti comprati con i soldi delle anziane signore che egli soddisfa ampiamente. Ecco, il Mancio, proprio come Julian/Richard Gere, dispone di tantissimi vestiti di ottima qualità e di ottimo taglio, perciò impiega moltissimo tempo a scegliere quello giusto. Una volta indovinato, però, c’è un piccolo problema: non fa godere la sua committente.
Luigi Fattore