Me l’immagino sempre così: ad aspettarmi davanti al bar della piazza, seduto su quella panchina malandata, a chiudere l’ennesima sigaretta della giornata. Ed Ivan, che da lontano si fa capire a gesti, a fischi, a smorfie, stavolta per nulla in grado di esprimersi.
Me l’immagino silenzioso, avvolto tra pensieri immensi e pacchi di tabacco in attesa di calmarlo. Me l’immagino solo, e solo anch’io. Ma con lui. A parlare di quant’è decisivo Budimir, di perché spesso rimpiange Spalato, di quella volta in cui c’ha davvero creduto. Di quella volta in cui aveva anche lo stemma dell’Inter sul cuore.
Ivan Jurić è così: come lo vedi. Come lo senti, soprattutto. Perché non ti dà mai l’impressione di spiegarsi con mezze misure: se è felice, sei il primo a saperlo; se è incazzato, arrivi subito dopo il barista che ha già provveduto a dargli una mano. Se è deluso, poi, forse è meglio scappare.
Dove? Via, a gambe levate, più lontano possibile. Fuori dalla sua vista e dal suo raggio d’azione. Del resto, è il cuore, il sangue, la voglia matta di arrivare a destinazione, qualunque essa voglia essere, qualunque lui abbia deciso di prefissarsi. Le sue rughe non mentono. Lui, le cicatrici, le ha dentro: conficcate nell’anima da lottatore. E spesso fanno male, ma talvolta hanno effetto contrario: gli ricordano che nulla in questo mondo va dato per scontato. Neanche il calcio, ancor meno il suo calcio.
Sono stato fortunato: ho avuto fin da subito un grande feeling con la città e con i tifosi. Ma con la società è stata dura: è stata abbandonata per tanti anni, non è stato migliorato niente nelle infrastrutture che sono importanti anche per far capire ai giocatori che la società ha un certo modo di lavorare. Alla fine? Abbiamo improvvisato. Molto.
Ecco: ci sono immagini in grado davvero di dare dimensioni, idee, sensazioni. Ivan Jurić è un’istantanea vivente, un meraviglioso programma fatto di scatti d’ira ed enorme generosità. E la sua creatura è l’essenza più pura del suo essere: perché giovane, sfrontata, agguerrita. Spettacolare sì, e a lunghi tratti. Con quella meravigliosa sensazione che da un momento all’altro possa chiuderti la porta dei sogni: è il Crotone, e solo il Crotone, ad essere infallibile proprietario del suo destino.
Un passo, poi un altro, poi ancora uno. Ci sono tecnici che inseguono il senso del proprio cammino per un’intera carriera, e poi c’è Ivan: l’ha colto subito, manco sapesse già dove andare e perché andare. Il tempo di rollarsene un’altra, di guardarmi in faccia. Di chiedere al barista se ce n’è ancora, che stasera e solo stasera vuol festeggiare. Perché? Chiedetelo in giro, setacciate Crotone. Vi diranno che Ivan, Ivan Jurić, ha stracciato pregiudizi e false resistenze, ha smaterializzato la fantasia e l’ha trasformata in enorme realtà.
I calabresi sono in Serie A, nell’olimpo del calcio italiano. Li ha portati su un rigore di Palladino, i gol di Budimir, il genio del croato. Il cuore di una città che non sa più distinguere tra reale e fantastico.
Credo molto nel lavoro, è la base di tutto. Poi il resto sono aggiunte. Ciò che conta è avere un’idea chiara di come giocare, dove ognuno sa esattamente cosa deve fare. È la base. Se sopravvaluti certe cose, tipo lo spirito di gruppo, poi rischi di trascurarne altre.
Ci risiamo, e ci risaremo, e poi ancora c’innamoreremo. Perché le parole che sanno di fatti hanno quel bel difetto di accompagnarsi alle azioni. Funziona così, il mondo di Ivan. Freddo come certe sere in Croazia, davanti alle proprie certezze e alle proprie convinzioni. E a pugni chiusi, a denti stretti, a sperare in un domani migliore. In Italia, la sua favola ha avuto il lieto fine che meritava un animo puro e gentile come il suo. L’ultima sigaretta, Ivan, te l’offriamo noi: te la dobbiamo per quel sogno chiamato Crotone. No, non ti sveglieremo. Non lo faremmo mai.
Dal vangelo secondo Ivan Jurić, andiamo in pace, un po’ tutti. Ed in Serie A, così:
Penso che la costruzione della squadra sia la parte più bella del mio lavoro.
Tutto il resto, come abbiamo visto negli ultimi anni in Italia, non va bene.
Quello che rimane è lo spogliatoio, il rapporto con i giocatori e la voglia di ottenere un obiettivo. Penso sia fondamentale scegliere fin subito all’inizio persone con qualità umane, e che possono diventare i leader dello spogliatoio.
Se sbagli questa scelta potresti avere molti problemi durante la stagione.
Credo molto in un rapporto sincero, oltre ogni limite.
E intendo fino ad arrivare a essere molto chiaro, bisogna essere sempre sinceri con i giocatori. Sia cose brutte che belle.
Così loro arrivano ad apprezzare l’uomo che sei, che è cosa fondamentale. Il valore del lavoro è il più importante.
Cristiano Corbo
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