Ultimo aggiornamento 25 Marzo 2016 0:51 di admin
Fenomeno, fuoriclasse, leggenda. Aggettivi che spesso si sprecano, vengono usati con leggerezza. C’è chi però tali appellativi li accoglieva e superava, con fare dirompente e deciso, come il suo modo di intendere il gioco. Rivoluzionario, questo è stato Johan Cruijff per il calcio mondiale. Un meteorite che impatta al suolo e scuote ogni equilibrio, rivoluzionando l’intero sistema. Il suo esordio, a 17 anni contro il Groningen, una Presa della Bastiglia per un mondo che non sarebbe stato più lo stesso.
Il football perde oggi un architrave della propria storia. Un tassello essenziale in una transizione fragorosa ma elegante, sinuosa, come il suo cadenzare in campo senza lasciare scampo agli avversari. Un talento che sfidava ogni descrizione, raccogliendo tutto lo scibile umano e immaginabile, l’emblema del calcio totale che Rinus Michels trasfuse in campo, ad immagine e somiglianza di un campione nato Betondorp, nella periferia di Amsterdam. Costretto a crescere in fretta, perdendo il padre a soli 12 anni, bramando un futuro radioso per se e per la propria famiglia, inseguendo un sogno, accarezzando un pallone. Superando ogni traguardo, soverchiando qualsiasi limite ed obiettivo.
Se ne va uno dei migliori di sempre, il simbolo del calcio che mutava il proprio volto. Oltre il dominio assoluto imposto all’Europa con la maglia dell’Ajax, oltre le meraviglie raccontate nella favola non a lieto fine dell’Arancia Meccanica. Cruijff era ciò che raccontava in campo, falso nueve ante litteram, capace di intonare melodie palla al piede, di destro come di sinistro, senza differenza alcuna. Dribbling ubriacante, imprendibile quando decideva di puntare l’avversario. Quel feeling con la rete naturale, ma non solo, Cruijff, cuore e cervello di quella meravigliosa avventura. Capace di decantare il calcio totale in ogni sfumatura, ripiegando con ossessione in fase difensiva, dedizione più completa al servizio dei compagni. Incarnazione di quel possesso palla ipnotico che avrebbe incantato proseliti, emulatori ed ammiratori. La storia tessuta con la maglia dei Lancieri, un legame inscindibile ma spezzato, in direzione Catalunya, perché nulla poteva superare il proprio orgoglio.
Fuori dagli schemi per definizione, divinamente. Come il calcio che riusciva a riproporre da icona che sfidava il mito, raggiungendo picchi di magnificenza cristallina. E di incantare, stupire, sovvertire l’ordine costituito. Sopra le righe, con numeri in grado di solleticare il palato del pubblico pagante, con costanza matematica. Testa alta in campo, lo stesso fuori, nei gesti, nelle parole. Talvolta scanzonato, forse, soprattutto in quelle dichiarazioni mai banali. Semplicemente Johan Cruijff. Ordinario mai, come in quel simbolo stampato sulla 14 che avrebbe sempre e comunque rimandato a lui, a lui soltanto. Indossata per la prima volta nel 1970, dopo una sequela infinita di trofei conquistati con quella nove con cui il maestro Michels l’aveva insignito. Orgoglio, dicevamo, che prevalse su qualsiasi attaccamento quando la fascia di capitano passò a Piet Keizer per scelta dei suoi compagni. Uno smacco troppo grande, un’onta inaccettabile, di lì il suo passaggio al Barcellona dove altre pagine di storie attendevano solo la penna giusta. Quella di un Profeta, non solo del goal, ma del calcio nella sua essenza.
Vincere anche in terra iberica è fisiologica conseguenza, ma il meglio doveva ancora destarsi in terra catalana, prima la risposta allo smacco del rifiuto in casa Ajax al suo ritorno, giusto il tempo di prendersi il titolo con la maglia dei rivali del Feyenoord. Poi l’addio, costretto da un cuore troppo debole per reggere il passo di tanto, incommensurabile, talento.
Il meglio in riva alla Costa Brava, appunto, in panchina. Seguendo la scia del suo maestro, Michels, che al Camp Nou aveva già seminato credo e idee. Ma con Cruijff arrivò il vero cambio di passo, inversione di rotta storica, universale. Le fondamenta di ciò che il Barça oggi rappresenta. Metodo e classe olandese, talento e orgoglio catalano, una mistura maestosa e letale che ancora oggi delizia, nelle sue infinite evoluzioni. Vincente, come ovvio, come sempre. Portando i blaugrana sul tetto d’Europa e del globo. Mai accaduto nella storia, altri tempi, appunto. Vincente e sfrontato, anche quello, come nella vigilia della finale di Atene nel 1994 contro il Milan, certo delle possibilità del suo Dream Team contro i rossoneri di Capello, persino in emergenza. La batosta che non intaccò la leggenda. Cruijff era questo, prendere o lasciare, chiedere a Guardiola e Luis Enrique nell’evenienza. Nulla poteva scuoterlo, tantomeno toccarlo, come quando nel ’73 decise di chiamare il suo terzogenito Jordi, in omaggio al Santo patrono catalano, sfidando la dittatura di Franco.
Se ne va, seguendo la scia di altre leggende a cavallo degli anni ’60 e ’70, di un calcio romantico ma ancora vivo nelle immagini, le imprese, i ricordi. Accompagnato all’uscio da Alfredo Di Stefano ed Eusebio. Solo qualche settimana fa il Pelè bianco, come amava definirlo Gianni Brera, era ancora sferzante, come sua consuetudine: “All’intervallo siamo 2-0 per me”. Purtroppo questa sfida era impari, persino per lui. Impossibile dimenticare l’aneddoto dell’istrionico, compianto, George Best: “Era il 1976, si giocava Irlanda del Nord – Olanda. Giocavo contro Johan Cruijff, uno dei più forti di tutti i tempi. Al 5° minuto prendo la palla, salto un uomo, ne salto un altro, ma non punto la porta, punto il centro del campo: punto Cruyff. Gli arrivo davanti gli faccio una finta di corpo e poi un tunnel, poi calcio via il pallone, lui si gira e io gli dico: ‘Tu sei il più forte di tutti ma solo perché io non ho tempo'”. Questa sfida, adesso, avrà modo di riproporsi, Hendrik Johannes Cruijff non se lo farà ripetere più di una volta, è più di una convinzione. Addio Johan, o meglio, arrivederci. Perché i simboli diciamocelo non ci abbandonano, mai. Si issano solo per rammentare, per sempre, la propria grandezza.
Edoardo Brancaccio